«Sono sempre più gli italiani che rinunciano alle cure a causa delle lunghe liste di attesa». A sostenerlo con i numeri è l’Istat, che rileva come nel 2022 la quota di persone che dichiara di aver pagato interamente di tasca propria sia le visite specialistiche che gli accertamenti diagnostici sia aumentata rispetto al 2019, passando rispettivamente dal 37 al 41,8% e dal 23 al 27,6% nel caso di tac, risonanze ed esami simili. Costi spesso esorbitanti coperti per poco più del 5% degli assistiti da una polizza assicurativa. Tutti gli altri hanno dovuto mettere mano al portafoglio e oltre 4 milioni di assistiti, non potendo farlo, hanno rinunciato alle cure. Il 7% della popolazione contro il 6,3% del 2019. E chi guarda al privato, sette volte su dieci lo fa non per scelta ma per la necessità di non aspettare mesi se non anni per una visita o un accertamento diagnostico. Liste di attesa sulle quali sono risultate in affanno un terzo delle 1.118 strutture sanitarie passate al setaccio dai Nas, che hanno rilevato anche tutta una serie di irregolarità nella gestione dell’attività libero-professionale medica, finalizzate ad allungare ad arte i tempi di attesa.
A costringere gli assistiti ad aprire il portafoglio per non dover aspettare tempo prezioso c’è anche il fenomeno di Asl e ospedali pubblici che, in barba alle leggi, erogano più prestazioni in modalità «solvente» che in regime di Ssn. A svelarlo è un rapporto dell’Agenas, che in ben 16 regioni su 21 ha scoperto strutture sanitarie pubbliche che erogano più interventi in forma privata che non in regime mutualistico. Questo nonostante una legge nazionale preveda che l’attività privata non possa essere superiore a quella pubblica. Un’asticella superata anche di due-tre volte da non pochi ospedali d’Italia. Pa. Ru. —