MARIA ANGELA DANZÌ L’EUROPARLAMENTARE MADRE DI FRANCESCO, SUICIDA NEL 2018

filippo fiorini
La più recente si chiamava Julie Tronet. Aveva 21 anni, era francese. Ha scritto una lettera ai genitori dove diceva «non ci riesco più. Non riesco ad accettare ciò che mi è successo. È troppo difficile per me rimanere sola». Si riferiva alla violenza sessuale che aveva subito pochi giorni prima e a un sentimento, la solitudine, che ha portato lei che studiava a Lecce con un programma di scambio e molti altri giovani che come lei avevano traslocato per motivi di studio, a togliersi la vita. La madre di uno di questi ragazzi, Maria Angela Danzì, è un’europarlamentare del Movimento 5 Stelle che, dopo la scomparsa del figlio Francesco, lavora per integrare i programmi Erasmus con protocolli di prevenzione del suicidio e assistenza psicologica.
Cosa è andato storto nel caso di Julie Tronet?
«La sua storia mi ha toccato profondamente: 21 anni, in Erasmus. Si rivolge a un ospedale, ma nessuno coglie il suo malessere. Non trova supporto psicologico. Si sente sola, ha paura di allarmare i genitori, non riesce a farcela e si toglie la vita. Purtroppo, non è un episodio isolato. Ci sono decine di situazioni analoghe. L’Europa deve fare più prevenzione e aggiornare i programmi di studio all’estero».
Questa vicenda la coinvolge anche sul piano personale.
«Sì, mio figlio Francesco si è tolto la vita mentre era in Erasmus. Si trovava in Olanda, aveva 22 anni. Dopo la sua morte, ho scoperto che un altro ragazzo che aveva il suo stesso nome e frequentava la stessa università, si era suicidato qualche mese prima. Nessuno dei due aveva mai dato segni di disagio, depressione, non avevano affrontato particolari fallimenti, non venivano da famiglie problematiche. Facevano sport, avevano amici. Eppure…».
Come ha reagito?
«Spesso mamme e papà di questo non vogliono parlare. Con tragedie così, si tende a farsi uccidere dai sensi di colpa. Invece io ho pensato di poter dare un senso a questa cosa. Non solo studiarla, ma invitare chi ne ha il compito a studiare tutte le soluzioni che possano evitare anche una singola morte».
In che modo?
«Ho trascorso mesi a censire casi analoghi, in tutta Europa. Atti di autolesionismo, incidenti stradali, scomparse nella notte e suicidi. Da europarlamentare, ho proposto diversi emendamenti alla risoluzione sulla salute mentale, che prevedevano nel programma Erasmus un supporto psicologico adeguato. Ho chiesto modifiche dirette a garantire un’informazione ai ragazzi sulla presenza di mercati legali e illegali di sostanze geneticamente modificate, come la cannabis con Thc potenziato, che altera la percezione e il controllo. Tutti i Paesi devono adottare un piano per la prevenzione dei suicidi, che costituiscono la seconda causa di morte tra i ragazzi. Poi, mi sono spesa per l’alfabetizzazione delle istituzioni scolastiche e delle famiglie».
Perché i programmi di studio possono aggravare il disagio giovanile?
«I programmi di studio all’estero sono un fatto straordinario, che ha arricchito l’Unione Europea e ha contribuito a crearla. Ma, come tutte le cose innovative, si devono adeguare e comprendere quali sono le esigenze dei ragazzi e i pericoli che corrono. C’è una sorta di pregiudizio positivo. Dire che questa cosa può essere migliorata, viene preso come una critica».
Crede che nel caso di suo figlio, la lontananza da casa abbia giocato un ruolo negativo?
«Si, ma non c’è stato solo questo. Lui ha chiesto aiuto medico, come Julie, e nemmeno a lui è stato dato. Un altro aspetto drammatico è che quando lui è morto io non sono stata avvertita dalle autorità scolastiche. La polizia olandese non mi ha mai contattato. L’ho scoperto da Messenger».
È stato un amico di Francesco ad avvertirla?
«Sono stata io a rintracciare su Messenger un conoscente, che era stato taggato in un post. Vede, sono considerati adulti, ma sono giovani adulti. Perché, mi domando, non si fanno cose semplici come dare un riferimento telefonico, da chiamare quando tuo figlio non risponde più al cellulare? Io penso a misure che tranquillizzino le famiglie, garantiscano uno scambio di informazioni più elevato. Ci vogliono programmi personalizzati prima di partire, che, per esempio, con un test si possa capire qual è il grado di autonomia del candidato. Poi, uno sportello d’ascolto a cui ci si possa rivolgere sul posto. Non parlo solo di un medico, magari uno studente più grande, che colmi il vuoto di un amico che manca, un’amica coscienziosa che ti possa aiutare». —