Non so se come insegnante io sia empatica o no. Comunque non mi hanno mai impallinato, finora. O almeno non con pallini ad aria compressa, come è accaduto alla povera collega di Rovigo alcuni giorni fa. In quindici anni di insegnamento i miei studenti mi hanno trafitta eccome, a volte con uno sguardo, altre con una frase o una battuta ironica. Qualcuno mi ha impallinato lasciando la scuola e non presentandosi più a lezione, e quello forse fa più male. Qualcuno mi ha colpito nel profondo parlandomi alle spalle, qualcuno imbrogliando a una verifica, ma per questo tipo di attentato noi prof abbiamo in dotazione il giubbotto antiproiettile.
Il fatto è che chi è in cattedra è sempre esposto, ma non per questo deve essere un bersaglio. E forse questo intendeva Luciana Littizzetto, anche lei ex prof (e quindi prof per sempre) quando, con una battuta purtroppo fraintesa, ha detto che se sei empatico difficilmente ti sparano a pallettoni durante la lezione. La frase è stata contestata anche dal ministro Salvini, che in un post su Twitter ha invitato l’attrice al silenzio. E invece secondo me questa storia merita qualche parola perché Littizzetto, in modo certamente provocatorio, ha detto una cosa molto vera: che stare in classe è un gesto d’amore, da ambo i lati della cattedra. Amore per il proprio lavoro, amore per quello che si condivide, amore per lo studio, amore per dei giorni che sembrano tutti uguali e invece sono irripetibili. Tra noi docenti per dire che uno ci sa fare con i ragazzi usiamo quest’espressione: “Sa tenere la classe”. Chi sa tenere la classe è come un capitano scaltro che conosce i venti e regola le vele per portare ogni giorno di ogni quadrimestre di ogni anno la nave in porto, possibilmente con tutti i passeggeri a bordo. Ma ciascuna classe è un viaggio a sé: ce ne sono di avventurosi, di allegri e di faticosissimi. Quelli in cui l’aria è ferma e per avanzare di un miglio bisogna dare mano ai remi e le truppe tramano l’ammutinamento. Possono congiurare per farti fuori a pallettoni o, più frequentemente, per esautorarti della tua autorità. Esiste un giorno preciso durante il secondo quadrimestre in prossimità del Carnevale in cui con certezza matematica il rappresentante di classe si alzerà per parlare a nome di tutti e protestare per i troppi compiti, le interrogazioni troppo ravvicinate, il programma troppo pesante, le spiegazioni troppo complicate. E lì il bravo capitano deve ricorrere a tutta la sua arte nautica per governare l’insurrezione ed evitare di essere ammarato e dato in pasto agli squali.
Il fatto è che però governare la nave diventa sempre più difficile di anno in anno. Forse perché quella barca si sta facendo un po’ troppo affollata: non ci siamo solo noi e loro a condividere lo spazio e il tempo della lezione, ma anche altre presenze immateriali ma non per questo meno invadenti. Ci sono i genitori, ad esempio, che qualche volta si ergono a difensori strenui dei loro figli anche quando sono indifendibili. E poi i telefonini, che come moderne Sirene di Ulisse minano continuamente l’attenzione, confondono la rotta e rendono incerta la navigazione. E infine c’è una certa idea dell’insegnante che è quel povero diavolo pagato pochi spiccioli e che in cambio si gode tre mesi di vacanza e fa un lavoro che in fondo sapremmo fare tutti. Poco più di un bersaglio da tirassegno, messo nel baraccone che è la scuola a destreggiarsi tra le mille emergenze quotidiane per l’intrattenimento dei ragazzi.
E credo che, tra tutti, sia questo il colpo più doloroso. Quello di una professione sempre più misconosciuta, sempre più bersagliata, e non solamente dagli alunni. —