Sono continuamente evocati come salvatori della patria, uomini a cui affidare le sorti del centrosinistra – la parola magica è “federatori” – vuoi come promotori di una lista di centro, vuoi come candidati premier sicuramente migliori di Elly Schlein e Giuseppe Conte. Persino il consigliere del Quirinale Francesco Saverio Garofani, nelle conversazioni “tra amici” rivelate dalla Verità, ha citato Ernesto Maria Ruffini e Romano Prodi come uomini della Provvidenza.
Ma in questa gran voglia di padri nobili, il dibattito pubblico sembra ignorare il peso elettorale di questi nomi, cui vengono attribuite doti da taumaturghi senza fare i conti con l’unica domanda che dovrebbe contare: ma attraggono gli elettori? Romano Prodi parte da un dato incontrovertibile: ha battuto due volte Silvio Berlusconi. Ma parliamo pur sempre di quasi 30 anni fa per la prima vittoria e quasi 20 per la seconda. Nel frattempo, la sua popolarità sembra quantomeno ammaccata. Se è vero che nel 2018 ispirò e sostenne – anche pubblicamente – la lista nella coalizione guidata dal Pd coordinata dal fedelissimo Giulio Santagata. Andò malissimo, col simbolo “Italia Europa Insieme” che si fermò allo 0,56 per cento. Da allora Prodi ha sovente contribuito al dibattito intellettuale e culturale del Pd, anche creando una frattura con Schlein, per esempio qualche giorno fa al Corriere ha messo in guardia dal “modello Mamdani”, troppo radicale: “Serve un riformismo coraggioso”. Un po’ il monito sottoscritto dal dem Lorenzo Guerini, che ha inquadrato il Pd come “il partito della responsabilità”, nel senso forse di sapersi far trovare pronto per ogni governo.
Insieme a Prodi viene spesso citato Paolo Gentiloni, altro nome candidato un po’ a tutto, dal Quirinale alla guida di un nuovo partito. Alla collezione di incarichi di Gentiloni, sicuramente lunga, non corrisponde però un analogo curriculum di successi alle urne. Negli ultimi dieci anni ha svoltato: ministro degli Esteri, presidente del Consiglio, Commissario europeo. Tutti ruoli di prestigio, ma senza passare direttamente dalla legittimazione del voto. Nel 2013, proprio alla vigilia di questa scalata, si candida alle primarie dem per fare il sindaco di Roma e arriva terzo su tre col 15 per cento, lontanissimo sia da David Sassoli (27 per cento) sia da Ignazio Marino (55 per cento), al netto di alcuni candidati minori tra l’1 e il 2 per cento. Diventa premier dopo la sconfitta di Matteo Renzi al referendum nel dicembre 2016 e traghetta la legislatura fino alle elezioni. Gli elettori non saranno certo benevoli col Pd, facendolo precipitare al 18 per cento con la contestuale ascesa di M5S e Lega, proprio in reazione al quinquennio Letta-Renzi-Gentiloni. Gentiloni se la cava alla grande, riuscendo a farsi nominare un anno più tardi commissario europeo.
Il resto è cronaca recente, in cui trova spesso posto Ernesto Maria Ruffini. Da un po’ di tempo accreditato come riferimento naturale dell’area cattolica: si dà un gran da fare tra convegni e comitati. Che questo impegno si tramuti in voti è da vedere, anche perché Ruffini viene associato ai precedenti incarichi a Equitalia e all’Agenzia delle Entrate, non certo gli enti pubblici più popolari. L’altro giorno, a una delle kermesse di “Più uno”, l’associazione di Ruffini, si è presentato anche Vincenzo Spadafora, ex 5Stelle passato con Luigi Di Maio e ora animatore del movimento “Primavera”: “Costruiamo insieme un percorso”, ha detto Spadafora. Cui non manca l’esperienza, in termini di gambe centriste della coalizione. “Impegno Civico”, meteora della politica italiana nel 2022 ha radunato gli ex 5Stelle intorno a Di Maio, fu stroncato con lo 0,6 per cento. Precedente che dovrebbe suggerire prudenza, per tacere dell’avventura centrista e imprenditoriale al seguito di Mario Monti, nel 2013, fallimentare. Non è un caso che Beppe Sala, un altro nome da retroscena, sia stato finora molto restio a esporsi per progetti nazionali, ben sapendo che già a Milano è alle prese con grossi problemi dentro la coalizione e che è assai difficile trasformare in realtà le ambizioni, piuttosto velleitarie, di quell’area politica.