“L’intramoenia è iniqua e i medici lo sanno La salute non può essere un business”

Paolo Russo
roma
«La medicina non è fatta per guadagnare ma per gli ammalati. Bisogna avere il coraggio di poterlo dire». Quello che non manca al professor Giuseppe Remuzzi, direttore dell’Istituto di ricerca farmacologica “Mario Negri”, ma anche grande nefrologo, secondo nel ranking italiano dei medici, che non le manda a dire dopo aver visionato i dati della nostra inchiesta sulle strutture sanitarie pubbliche che fanno più prestazioni in attività libero-professionale che in regime pubblico. Con liste di attesa ovviamente a tutto svantaggio di chi non paga.
Professore, cosa ne pensa della libera professione medica dentro gli ospedali? 
«Anche se immagino già le critiche che mi verranno dai colleghi dico che bisogna abolire l’intramoenia, perché è la quintessenza dell’ingiustizia. Il principio è iniquo e i medici stessi lo sanno, anche se poi vanno meglio remunerati sia loro che gli infermieri. Ma l’idea che i soldi abbiano pervaso tutto e che la medicina sia diventata un modo per far guadagnare i medici, le industrie e quelli che governano la sanità è inaccettabile. Tra l’altro, con l’intramoenia è il pubblico che ti dice di pagare qualcosa di cui hai diritto secondo la Costituzione. Non si può accettare: è un sistema completamente lontano dall’interesse del malato». 
Il ministro Schillaci, nell’intervista rilasciata giorni fa al nostro giornale, ha detto che quando le liste di attesa sono troppo lunghe l’intramoenia andrebbe sospesa. Condivide?
«Condivido appieno. Così come trovo preziose le parole dallo stesso ministro, quando dice che, se a un cittadino si comunica che le liste di attesa sono chiuse ma, se paga, ci sono medici e macchinari pubblici subito a sua disposizione, allora dobbiamo chiamare questo fenomeno con il suo vero nome: illegale e indegno». 
Secondo i sindacati medici non c’è correlazione tra l’attività libero-professionale negli ospedali pubblici e le liste di attesa. Immagino non la pensi allo stesso modo…
«Non condivido e mi chiedo se il problema delle liste di attesa sia davvero la carenza di personale quando poi, pagando, puoi fare qualsiasi visita ed esame specialistico rapidamente. Da questo si capisce che all’origine dei tempi di attesa in regime pubblico c’è altro». 
Però si dice che, se non si concedesse ai medici di fare un po’ di attività privata, con gli stipendi che ci sono la fuga dal servizio pubblico sarebbe inarrestabile. C’è un fondo di verità in questo?
«È vero. L’intramoenia nasce con lo spirito di permettere a coloro che lavorano nelle strutture pubbliche di guadagnare di più e mantenere i medici negli ospedali pubblici. Quello che facevano prima i medici era anche peggio, perché, terminato l’orario di lavoro, soprattutto gli anestesisti e i chirurghi volavano verso le cliniche private per dare le loro prestazioni. Ovviamente l’intramoenia non si può togliere di colpo, ma serve una soluzione di transizione. Ad esempio, nel reparto che io ho guidato per tanti anni c’era una persona che voleva fare l’intramoenia e che ci ha sfinito con questa richiesta. Allora abbiamo deciso che venissero curati prima i malati che si presentavano con l’impegnativa del Ssn. Esauriti quei pazienti nell’ambulatorio, il medico avrebbe potuto fare l’intramoenia».
Ma lei esclude che all’origine delle liste di attesa così lunghe ci sia anche un problema di carenza di personale?
«Dire che abbiamo pochi medici non è esatto, perché in realtà noi siamo organizzati per non lavorare bene con i medici che abbiamo. Ricordo che in Francia i medici sono di meno. Quelli che noi abbiamo davvero in numero scarso sono gli infermieri. E abbiamo anche un altro difetto: non riusciamo a utilizzare fino in fondo la grande forza e le grandi capacità del personale infermieristico: di essere vicino ai malati, di risolvere i problemi e di capire anche le malattie. Sono gli infermieri che mancano, e sono loro che vanno pagati meglio». 
Quando si è ha provato a dare qualche compito in più agli infermieri l’Ordine dei medici è subito insorto…
«Le rispondo con un aneddoto. Io solitamente faccio il giro del reparto solo con una infermiera, mai con i medici. Una volta l’infermiera capì che un paziente aveva una sospetta amiloidosi. Le dissi: “Va bene, facciamo una biopsia”. Era effettivamente amiloidosi. Chiesi all’infermiera di non dirlo ai miei colleghi, altrimenti si sarebbero offesi. La verità è che invece dobbiamo usare le capacità di tutti: sarebbe una cosa straordinaria. Non possiamo continuare a investire nella sanità privata e le assicurazioni sanitarie non risolvono i problemi, come dimostrano in modo impietoso gli Usa». 
Eppure anche da noi si comincia a dire «se lo Stato non può più passare tutto a tutti, fatevi una polizza e sarete a posto…».
«Non credo proprio. Una recente indagine della Kaiser Foundation, un’agenzia indipendente che si occupa di salute pubblica, rivela che la maggior parte degli americani super-assicurati ha difficoltà a ottenere quello che serve per curarsi, non trova un accordo con l’assicurazione e intanto la malattia progredisce. Insomma, un disastro». 
Non siamo più un Paese di anziani ma di grandi vecchi. La sanità come può vincere la sfida dell’invecchiamento della popolazione?
«Potenziando prima di tutto l’assistenza territoriale. Partendo da quel pilastro che è il medico di famiglia, a cui deve spettare il compito di pianificare e organizzare i servizi del territorio integrando le attività di prevenzione e riabilitazione. E per chi non può essere curato a casa ci saranno le Case di comunità, dove lavoreranno insieme medici di medicina generale, specialisti, infermieri, assistenti sociali, tecnici della riabilitazione. I piccoli ospedali di oggi dovranno poi trasformarsi in “ospedali degli infermieri”, dove si faranno cose come medicazioni, prelievi, esami diagnostici, chemioterapia. Una rete che servirà anche a decongestionare ospedali e pronto soccorso. Una formula vincente soprattutto se riusciremo a remunerare adeguatamente medici e infermieri». —