La fretta con cui Donald Trump e Xi Jinping hanno trovato una tregua commerciale dopo la stretta cinese sull’esportazione di alcune Materie prime critiche (in sigla Mpc: le ormai famose “terre rare”, ma non solo) dovrebbe spiegare più di ogni discorso l’importanza dell’argomento: il fatto che l’Europa a quel tavolo fosse rappresentata dalla Casa Bianca è secondario per il mondo, assai preoccupante per noi. Il Vecchio Continente ha però un punto di forza: i suoi cittadini comprano e buttano ogni anno milioni di dispositivi elettrici ed elettronici, dai quali è possibile riciclare enormi quantità di Mpc, secondo uno studio della multiutility Iren e di Thea (Ambrosetti), presentato giorni fa alla fiera Ecomondo di Rimini. Una miniera che per l’Italia potrebbero valere fino al 66% del suo fabbisogno. Problema: l’Ue non ricicla abbastanza, l’Italia ancor meno ed è già in procedura d’infrazione.
Ripartiamo da capo.
Le Mpc sono materiali essenziali per produrre tecnologia avanzata e prodotti industriali sia innovativi (aerospazio, elettronica) che tradizionali (le auto, ad esempio): in generale possiamo dire che sono materie prime fondamentali nel processo di elettrificazione in corso nell’economia globale, processo che unisce le due transizioni digitale ed energetica. Non a caso la domanda globale di Mpc continua a crescere: +11% dal 2021 al 2024, è stimata accelerare a +34% di qui al 2030 (la domanda di litio, ad esempio, è prevista salire del 146%, quella di grafite dell’85). Un mercato che vale decine di miliardi di dollari l’anno e migliaia di miliardi considerando il suo peso nell’industria: il valore della produzione Ue interessato dalle Mpc, secondo Iren e Thea, è pari a 3.900 miliardi di euro, il 22% del Pil europeo (dato che sale al 28 e al 31% per Paesi manufatturieri come Germania e Italia).
Sarebbe solo un dato statistico come un altro se il mercato globale delle materie prime critiche non fosse concentrato in pochissime mani, in particolare quelle cinesi: nel 2024 – considerando grafite, cobalto, terre rare, litio, nickel e rame – la quota dei tre maggiori Paesi raffinatori era in media dell’86%, in crescita di 4 punti rispetto al 2020 (per i dettagli vedi il grafico in pagina). Il problema è che negli ultimi anni si sono moltiplicate le tensioni e le restrizioni nel commercio di Mpc, fino al quasi blocco imposto dalla Cina su diversi materiali critici nel 2025 che avevano portato – fino alla tregua sancita in Corea da Trump e Xi – allo stop della produzione in diversi stabilimenti europei.
Riassumendo, il Vecchio Continente è indietro rispetto all’estrazione e trasformazione industriale delle materie prime critiche, come d’altronde gli Stati Uniti, ma a differenza loro non ha la forza geopolitica per imporre al resto del mondo accordi per lei vantaggiosi. In sostanza la sopravvivenza della parte più innovativa del nostro sistema industriale è affidata agli umori variabili del globo e ai ricatti delle due superpotenze. Un fatto talmente noto che l’Ue ha varato un Critical Raw Materials Act con 4 obiettivi da raggiungere entro il 2030: estrarre in Europa almeno il 10% del consumo annuale di ciascuna Mpc, raffinarne qui almeno il 40%, soddisfare il 25% del consumo tramite riciclo e limitare al 65% la dipendenza da un unico Paese (oggi, per dire, il 93% delle terre rare ce le vende la Cina…). Finora i risultati non sono granché e i 47 progetti strategici avviati risolverebbero solo una frazione dei problemi dell’Ue in materia.
E qui si torna al tema del riciclo. Una particolarità della rivoluzione industriale in corso è che i prodotti che realizzano nella pratica l’elettrificazione dell’economia – dalle e-car ai pannelli solari, dai telefonini alle batterie – sono quasi del tutto riciclabili e, in prospettiva, migliorandone la progettazione interamente riciclabili. L’elettrificazione presuppone l’economia circolare: il futuro, se andrà bene, sarà La catena di smontaggio, secondo il bel titolo di un libro recente di Davide Reina, economista d’impresa e docente della Bocconi. Già oggi i rifiuti elettrici ed elettronici (i cosiddetti Raee) sono la nostra vera miniera urbana, che potrebbe valere fino al 66% del fabbisogno di Mpc italiano. Si usa il condizionale perché, nonostante il volume dei Raee messi in commercio continui ad aumentare, il loro tasso di riciclo diminuisce. Oggi l’Italia ne raccoglie correttamente solo il 29,6%: 7 punti meno della media Ue. Non solo: il 90% del materiale grezzo recuperato – in assenza di una vera industria della trasformazione delle “materie prime seconde” – lo vendiamo all’estero.
L’obiettivo Ue,
come detto, è arrivare al 65% di Raee riciclati entro il 2030 e ora la Commissione propone nel prossimo Bilancio comunitario l’introduzione di una “tassa Raee” di 2 euro al chilo della differenza tra il tasso di raccolta nazionale e il target europeo: ad oggi per noi significherebbe una multa da 2,6 miliardi l’anno. Lo stesso importo investito lungo la filiera del riciclo, sostiene il report Iren e Thea, creerebbe un’industria strategica per il Paese e aiuterebbe a coprire fino al 66% del fabbisogno nazionale di Mpc. Un altro investimento strategico sarebbe, nell’ambito del Piano Mattei, avviare iniziative di cooperazione con Egitto, Algeria e Marocco, che producono il 42% dei Raee africani. Due grandi operazioni di sicurezza nazionale a prezzo tutto sommato contenuto…