La detenzione. L’inviato del “Fatto” racconta il trattamento riservatogli dagli israeliani: bendato e senza numeri di avvocati

Alessandro Mantovani

Esco dal carcere con una maglietta bianca, pantaloncini grigi e un paio di ciabatte. A parte la divisa, che ci hanno dato nel carcere di Ketziot, non ho più nulla. Non mi restituiscono carta d’identità, carte di credito, vestiti. Nulla. Riprendo solo il passaporto, ma quando sono già a bordo dell’aereo della Turkish Airlines che mi porta a Istanbul, dopo 72 ore passate tra caldo asfissiante e gelo, occhi bendati e polsi legati. Ma riprendiamo da dove c’eravamo lasciati: la notte tra il primo e il 2 ottobre.
Gli abbordaggi alla Global Sumud Flotilla sono in corso ormai da ore. A bordo dell’Otaria siamo a 60 miglia dalla striscia di Gaza. Sfrecciano grossi gommoni neri e motovedette israeliane. A luci spente. All’improvviso grandi fanali iniziano a illuminare le barche. Una per una. Su alcune gli idranti sparano acqua di mare. O forse no. Qualcuno parla di sostanze irritanti. Poi arriva l’abbordaggio. Un gommone ci raggiunge da poppa: “Fermatevi. Dobbiamo prendere il controllo della barca. Non opponete resistenza”. Ci affiancano: “Ci sono donne tra voi?”. “No”, rispondiamo. Salgono. Quattro militari. Tutti maschi. “Chi è il capitano?” chiedono. Nessuno di noi risponde.
Li abbiamo aspettati per ore, nel pozzetto, navigando a 5 nodi, con i salvagente addosso. A bordo non ci trattano male. La perquisizione è blanda. Ci lasciano dormire a prua con qualche coperta. Prendono il comando in direzione di Ashdod. Al mattino ci portano sotto coperta. Chiudono le prese d’aria. Il caldo diventa asfissiante. Però ci fanno preparare il caffè. Dodici ore per arrivare al porto di Ashdod, tre per entrare, e inizia il peggio: ore seduti sull’asfalto putrido del molo. “In ginocchio”. urlano, se ti azzardi a parlare. O ti sbattono la faccia a terra. Peggio di tutti va a Greta Thunberg. Hanan Alcalde, un’influencer spagnola, viene invece costretta a baciare la bandiera israeliana. Dopo ore di formalità in un grosso hangar ci portano nel carcere di Ketziot. C’è chi racconta di aver incrociato in prigione cani che abbaiavano. Poi arriva il ministro della Sicurezza nazionale Ben-Gvir (me lo raccontano, io non lo vedo) che arringa i poliziotti.
Mi chiamano, devo spogliarmi, indossare maglietta e pantaloncini. Siamo in celle da 8, con due letti aggiunti, che diventano da 10. Nessuna ora d’aria. Mangiamo peperoni crudi, riso, marmellata, yogurt e uova sode. Beviamo acqua poco convincente dal rubinetto. Impossibile avere acqua minerale. In carcere con me c’è Yassine Lafram, l’imam che ha viaggiato sulla Karma, la barca allestita dall’Arci e dal Pd, che ha tirato dritto ed è stata abbordata come le altre.
In cella si dorme, tranne quando iniziano a spostarti da un braccio all’altro, anche senza un motivo apparente. Finalmente, per 15 minuti, possiamo incontrare la console italiana. L’ambasciata italiana in Israele non s’è segnalata per la sua grande attività in questi giorni. Il consolato a Istanbul ci ha trattato meglio. Eppure è una situazione dura.
Nel cellulare, per esempio, passiamo ore a una temperatura bollente. Entriamo bendati e ammanettati con delle fascette. Togliamo la benda, allentiamo le fascette e quando finalmente ci addormentiamo sparano aria condizionata gelida.
Quando chiedo di parlare con uno dei miei avvocati non mi consentono di telefonare. Spiego che sono un giornalista. Non gl’importa. E se pure avessi potuto telefonare, comunque, non avevo più il numero del mio avvocato: me lo sequestrano. Non una, ma due volte. Perché quando finalmente ho potuto parlare con un avvocato del team legale di Adalah, che mi ha dato il suo numero, mi hanno sequestrato pure quello. L’avvocatessa mi assiste nell’interrogatorio in cui chiedo di essere subito rimpatriato, come la maggior parte di noi, mentre firmo dinanzi a un poliziotto un documento che spiega: sarò espulso entro 72 ore. Un altro compagno di viaggio chiede di firmare lo stesso documento, ma glielo negano. Quattro parlamentari non italiani restano in carcere: la svedese Lorena Delgado Vargas, la brasiliana Luizanne Lins, la portoghese Mariana Mortagua, la francese Marie Mesmeur. Dopo 48 ore mi liberano, con un un primo gruppo di 137 persone, quasi tutti turchi, più 26 italiani, altri tunisini, americani, c’è qualche malese.
In volo si mangia del riso buono con fagioli carne e mozzarella. E poi si canta. Gli italiani, ma non solo, intonano Bella Ciao. I turchi canzoni religiose. A Istanbul veniamo accolti con tutti gli onori dalle autorità di governo e in serata posso ripartire per Roma. Ma altri 300 partecipanti alla Flotilla sono rimasti in carcere a Ketziot. Esposti a vessazioni e ritorsioni. E tra loro almeno 15 italiani.