C’è un’abitudine tutta italiana che si ripete a ogni tornata elettorale: la caccia al colpevole. Se la sinistra perde, non si parte mai da un’analisi sui motivi, ma dal dito puntato contro il leader di turno. È colpa della Schlein perché ha scelto Ricci, è colpa di Conte perché lo ha accettato. Alla fine, il teatrino si riduce a una gigantesca partita del lunedì mattina, con milioni di “allenatori da bar” convinti che con le loro formazioni si sarebbe vinto 5 a 0.

Ma se spostiamo l’attenzione dai nomi alle dinamiche, la fotografia cambia.

1. L’indagato a sinistra pesa, a destra no

Il primo paradosso: quando la sinistra candida un indagato, gli elettori progressisti storcono il naso e si indignano. Quando la destra candida un indagato? Lo votano comunque e vincono. Non serve il microscopio per notare che a destra funziona una regola di ferro: “siamo una squadra e si resta nel recinto”. A sinistra, invece, ogni candidatura diventa il processo di Norimberga.

2. A destra si migra, ma sempre dentro casa

Gli elettori di centrodestra si spostano con una naturalezza quasi invidiabile: ieri Lega, oggi Fratelli d’Italia, domani Forza Italia rianimata. Ma lo zoccolo resta lì: dentro lo stesso campo. A sinistra no: se il PD non convince, non ci si sposta sul M5S o su AVS. Si smette di votare. Punto. Il risultato? Destra che somma, sinistra che sottrae.

3. La fedeltà matematica delle percentuali

Altro mistero della politica italiana: la destra ottiene sempre le stesse percentuali anche se cala il numero dei votanti. Se vota il 50% degli aventi diritto, quel 50% garantisce alla destra la vittoria quasi matematica. A sinistra, invece, ogni disaffezione è un’emorragia. L’elettore progressista è esigente, spesso intransigente. Preferisce il divano al seggio, e così lascia campo libero.

4. L’intransigenza che regala la vittoria agli altri

Qui entra in scena l’ironico esempio del lavoro dei sogni. Se non trovo l’occupazione perfetta, accetto quella che mi fa campare la famiglia, e poi continuo a cercare. L’elettore progressista invece no: non vuole il candidato “imperfetto” e quindi rifiuta del tutto. Il risultato? La destra governa, e i figli (metaforici, ma mica troppo) restano senza scuola pubblica, senza sanità universale e con stipendi sempre più bassi.

5. La sindrome del “mi sento migliore”

C’è anche una componente psicologica: il sentirsi “più puri”, “più coerenti”. Ma migliori di cosa? Di chi vota per non farsi tagliare i servizi? Non è che questo rigore ideologico, alla lunga, rischia di trasformarsi in complicità silenziosa?

La vera domanda

La verità è che la sinistra continua a cercare i colpevoli anziché i motivi. Il problema non è la mancanza di un’offerta politica (quella, bene o male, c’è). Il problema è l’inerzia: l’italiano medio che smette di votare, convinto che sia un gesto di protesta. Peccato che così non protesti affatto: semplicemente consegna il Paese agli altri.

E allora, anziché cercare sempre il “colpevole di turno”, sarebbe ora di chiedersi: perché smettiamo di votare? Perché a destra l’unità resiste e a sinistra no? Finché non si affrontano questi nodi, la partita resterà truccata: una squadra scende in campo, l’altra resta a guardare dalla tribuna.

E indovinate chi vince?