Cengio, paese simbolo L’Acna ha chiuso nel ’99, ma la bonifica non è finita. Intanto si progetta già un termovalorizzatore

Ferruccio sansa

“Dove c’è merda, ci mettono sempre altra merda. Pensano che la gente ormai accetti tutto. La politica è così”, Giovanni, pensionato, agita il suo cappello di paglia e indica quella costruzione inconfondibile di mattoni rossi. Ricorda una torre, una fabbrica, un campo di prigionia, anche. Uno di quei luoghi – così pieno di storie com’è, di dolori, di morte – che ad avvicinarsi ti vanno via le parole.
È l’Acna di Cengio, in Val Bormida, per decenni simbolo dell’industria che avvelena la terra e il sangue. Proprio questo luogo la Regione Liguria ha indicato come possibile sede per un termovalorizzatore dove bruciare i rifiuti (la Liguria produce 326 mila tonnellate di rifiuti indifferenziati l’anno, appena quattromila in Val Bormida). Tra i cinque siti in lizza ce ne sono tre accomunati dallo stesso destino: Cengio, appunto; poi Cairo, poco lontana, ancora oggi segnata dalle nuvole di fumo dell’Italiana Coke. E Vado Ligure, a due passi da Savona, dove la centrale a carbone – chiusa nel 2016 dopo un’inchiesta giudiziaria – secondo uno studio epidemiologico del Cnr avrebbe causato quasi quattromila morti.
I sindaci interessati finora hanno detto no, ma qualcuno, forse intenerito dalle compensazioni, pare vacilli.
Per capire il destino della Val Bormida dovete prendere un bicchiere d’acqua e versarlo per terra: siamo in Liguria, le mappe, i confini e la politica sono rivolti a sud. Ma l’acqua e il fiume vanno a nord, verso il Piemonte. E le persone stanno in mezzo, lo senti nel dialetto, diverso in ogni paese. Insomma, è una terra divisa tra due regioni. Dimenticata da entrambe.
Se pronunciavi il suo nome dall’inizio del ’900 veniva in mente una parola: inquinamento. Lo scriveva anche Beppe Fenoglio: “Hai mai visto Bormida? Ha l’acqua color del sangue raggrumato, perché porta via i rifiuti delle fabbriche di Cengio e sulle rive non cresce più un filo d’erba. Un’acqua più porca e avvelenata, che ti mette freddo nel midollo, specie a vederla di notte sotto la luna”.
E il centro di tutto era l’Acna, che dal 1882 ha prodotto qualsiasi cosa avvelenasse: acido solforico, dinamite, perfino gas tossici per la guerra d’Abissinia e dicono defolianti per il Vietnam. Poi coloranti. Qui la gente ha combattuto in solitudine una battaglia infinita perché le acque colorate dalla fabbrica finivano nella terra, nel corpo degli uomini e delle bestie: era il 1938 quando 600 contadini citarono l’azienda. Finì nel 1962 con una sentenza che diede loro torto e li condannò a pagare i danni. I giornali non ne parlavano quasi, ma nel 1956 arrivarono altre manifestazioni e 52 contadini furono arrestati. Finché la popolazione non riuscì a far giungere la sua voce in tutto il Paese, bloccando il Giro d’Italia, salendo nel 1988 sul palco del Festival di Sanremo. L’ambientalismo è nato anche qui, portato avanti da gente che coltivava la terra, che lavorava in fabbrica.
Si è dovuti arrivare al 1999 perché lo stabilimento chiudesse i battenti. Ma non è sufficiente smettere di produrre, poi bisogna liberarsi del veleno che per oltre un secolo ha intriso tutto. Oggi l’impianto è affidato a Eni Rewind, società specializzata nel recupero dei siti inquinati che ha avviato messa in sicurezza e bonifica. Ma quasi trent’anni dopo non tutto è compiuto. Basta guardare i documenti dell’impresa: “Il sito è stato suddiviso in quattro zone omogenee… la Zona A1, destinata al deposito dei materiali; la Zona A2, ovvero l’area impianti in cui si trova il Torrione; la Zona A3, che è l’area golenale, e la Zona A4, denominata Pian Rocchetta… Allo stato attuale Eni Rewind ha completato gli interventi in A1, A2 e A4. Per queste ultime due aree è stata rilasciata la certificazione di avvenuta bonifica, pertanto sono disponibili per nuovi progetti finalizzati a sviluppo e valorizzazione del territorio”. È scritto nero su bianco: “Nella zona A3 gli interventi non sono stati ultimati. L’area A2 e A4 sono state bonificate, cioè i veleni sono stati portati via, ma la prima solo parzialmente e c’è un’escursione di falda che rischia di portare le acque del fiume a contatto con sostanze contaminate. Nella A1, infine, è stato fatto un lavoro di messa in sicurezza, cioè i materiali sono ancora lì”, racconta Claudia Patrone dell’associazione Rinascita Valle Bormida. Aggiunge: “In alcune aree esterne i campioni prelevati dai pozzetti hanno evidenziato la presenza di contaminazione elevata”. Già, c’è ancora tanta “merda” là sotto, come dice Giovanni. Eppure la Regione – dopo uno studio del Rina – ha indicato Cengio come possibile sito per mettere un termovalorizzatore. “In questo impianto dovrebbero giungere 330 mila tonnellate di rifiuti indifferenziati e già si prevede l’eventuale arrivo di quelli speciali e industriali. Soltanto perché la valle ha un basso peso elettorale. Ma noi abbiamo già pagato per un secolo. Tra l’altro un impianto del genere avrebbe effetti pesanti sulle attività economiche e il valore delle case”, sostiene Massimo Marazzo, consigliere di opposizione. Anche il sindaco Francesco Dotta si oppone: “Io non sono contro le nuove tecnologie, ma a Cengio basta. Il mio è un no categorico”.
Cengio, ma anche Cairo, il capoluogo di questa valle con 40 mila abitanti. Dove il paesaggio è ancora ingombro degli scheletri di fabbriche chimiche – come la Ferrania – ormai abbandonate. “Qui abbiamo ancora l’Italiana Coke. Abbiamo impiegato anni perché fossero rese funzionanti le centraline che dovevano monitorare la presenza di benzopirene. Ancora all’inizio del 2025 hanno mostrato limiti superiori fino a 13 volte ai valori obiettivo”, spiega Giorgia Ferrari, avvocato e consigliere comunale di opposizione. Eppure basta perdersi per le strade di Cairo e dei dintorni per capire come la Val Bormida da simbolo dell’inquinamento potrebbe diventare esperimento di riscatto. Le colline hanno recuperato il loro verde, i campi sono di nuovo segnati dai solchi dei trattori. Perfino le case cominciano a togliersi di dosso la patina che le aveva ricoperte. E c’è un tessuto sociale che tiene: le sale dell’Arci Pablo Neruda ogni giorno si popolano di volontari che fanno ripetizioni ai ragazzi, che insegnano l’italiano agli stranieri, che si riuniscono per trovare un futuro diverso per questa valle. “Ci sono enormi aree industriali dismesse. Spazi serviti da una ferrovia che collega la Liguria alla Pianura Padana. E c’è un’autostrada. In una regione così avara di spazi si potrebbe pensare di realizzare qui centri di ricerca, università specializzate nell’ambiente, poli industriali green”, è la speranza di Ferrari. E invece la Regione propone un termovalorizzatore. Del resto da queste parti gli imprenditori dei rifiuti hanno sponsorizzato la politica di ogni colore: il centrodestra dell’ex Presidente Giovanni Toti, ma anche il centrosinistra.
Tanta spazzatura e poco lavoro, è questo il futuro che si immagina per la Val Bormida. Intanto ha pochi voti.