Traditi dal lavoro

Paolo Russo
roma
Per la generazione Z che ha fatto le valige per trovare fortuna all’estero la ricerca di una retribuzione più alta viene indicata solo al quarto posto tra le priorità. Ma certo è che tra i giovani espatriati la molla principale era e resta avere un lavoro migliore. Quello che ha spinto ad andarsene il 26,2% di loro, mentre secondo un’indagine della Fondazione Nord Est la ricerca di una più alta qualità della vita è al secondo posto con il 23,2%. Seguono la migliore opportunità di studio e formazione con il 15,6% in fuga da un Paese tra quelli che investe meno in istruzione e ricerca in Europa. Poi con l’11,4% dei casi c’è l’aspettativa di un salario più elevato.
Resta il fatto che incrociando i dati Eurostat l’Italia risulta il Paese meno accogliente per i giovani, insieme al Portogallo paradiso dei pensionati, anche italiani, e al piccolo Lussemburgo, accogliente con i nababbi assai meno con gli altri. E a fare la differenza resta sempre e comunque il lavoro. Che prima di tutto bisogna avere la fortuna di avere. Cosa che non capita al 21,3% degli under 35 italiani contro il 14,1% della media europea. Che siamo un Paese per vecchi lo raccontano anche un altro paio di dati: quello di una spesa per le pensioni che assorbe il 58,3% di tutta quella per il welfare, mentre per contrastare la disoccupazione investiamo appena lo 0,2% del Pil di fronte a un valore medio che nell’Ue è dello 0,6%.
Chi già se ne è andato dice che le migliori retribuzioni oltre confine non sono poi così determinanti ai fini della scelta. Ma per chi resta è dura dover mandar giù il fatto che, sempre dati Eurostat alla mano, a parità di inquadramento un over 50 guadagna quasi il doppio di un giovane.
Ma se poi andiamo a mettere le mani in tasca ai nostri ragazzi in età da lavoro scopriamo che la “generazione mille euro” appartiene oramai a un passato migliore del presente. Dal 2019 pre-pandemia al 2023 secondo il rapporto “Giovani 2024” condotto dall’Agenzia italiana per la gioventù, mentre la retribuzione media dei boomers è salita del 23% quella dei giovani è andata giù del 17%. Ma questo dice ancora poco perché bisogna usare la lente di ingrandimento per cogliere la realtà lavorativa di chi non ha varcato i 35 anni. Già a osservare i salari dei dipendenti nel settore privato si scopre che contro una media già di per se modesta del settore, ferma a 22.839 euro lordi l’anno, quella dei giovani scende a 15.616 euro. Ma ad avercelo un posto fisso. Lo stesso rapporto svela infatti che il 40,9% degli under 35 ha un contratto precario, a tempo determinato o stagionale. E le cose vanno di male in peggio, perché i dati relativi ai nuovi contratti stipulati nel 2023 vedono salire la quota dei lavori precari tra gli under 30 addirittura al 79,8% dei casi. Contrattini spesso dal muso cortissimo. Quelli con una durata che spazia tra una settimana e un mese dal pre-pandemia sono saliti da 50 a 80mila. Ma questo è quello che emerge dal mare del lavoro nero, che secondo gli esperti conta almeno un numero dieci volte tanto di lavoretti di durata mini. Ovviamente quanto si racimola poi a fine anno sono briciole: 9.038 euro lordi per chi ha un contratto a termine e 6.433 per gli stagionali. Altro che mille euro al mese. E con queste cifre, sommate a un sistema bancario che non concede né prestiti e né mutui, con “740” così poveri parlare poi di “bambacioni” che a trent’anni non vorrebbero muoversi dal divano di casa sa per lo meno di ipocrisia.
Poi è anche vero che ad incidere sulla scelta di emigrare influiscono anche altri fattori, come quello della maggiore prospettiva di crescita professionale, indicata dall’86,5% degli espatriati e la possibilità di lavorare in settori innovativi indicati dall’88,2% di loro.
Il problema è che per fare carriera e ottenere un lavoro qualificato serve avere alle spalle una buona preparazione, «ma a causa di un sistema scolastico deficitario e che non premia il merito abbiamo giovani impreparati ad affrontare un mercato del lavoro con poco spazio e sempre più competitivo. Così il 20% di chi ha tra i 18 e i 34 anni finisce per ritrovarsi in una condizione di deprivazione sia lavorativa che di istruzione», spiega il sociologo e politologo, Luca Ricolfi.
«La promessa per cui i figli sarebbero stati migliori dei padri non vien più mantenuta. Un patto non scritto si è spezzato e l’ascensore sociale risulta inceppato», afferma a sua volta il direttore generale del Censis, Massimiliano Valerii.
Alla fine viene da chiedersi dove abbia girato lo sguardo la politica. Ma anche in questo caso i numeri del “Rapporto Giovani” aiutano a capire. Perché non sarà un caso se in 20 anni l’elettorato giovane è passato dal 30,4 al 21,9% delle ultime politiche. Che hanno visto crollare da 133 a 27 la rappresentanza giovanile in Parlamento. Conferma che no, l’Italia non è un Paese per giovani. —
