Chi accetterebbe di consegnare pacchi con la propria auto per 12 ore al giorno in cambio di 700 euro al mese? Chi andrebbe a confezionare borse per l’industria del lusso lavorando in nero, di notte, all’interno di un capannone con i pit bull tenuti alla catena? Nessuno. E invece, succede. E non a Rosarno o a Castel Volturno, e neanche in quei campi dove un esercito di disperati raccoglie sotto un sole assassino i pomodori che troviamo al mercato a 0,99 al chilo. No, succede nelle principali città italiane, Milano, Roma, Firenze, Torino, Padova. Il fenomeno è alimentato da migliaia di piccole cooperative che forniscono la forza lavoro che muove l’economia, i cosiddetti “serbatoi di manodopera”. E ha finito per travolgere chi se ne serve, ovvero le più grandi aziende della logistica, della grande distribuzione, della sicurezza, della moda.
Da quando qualche anno fa la procura di Milano ha cominciato a incrociare le informazioni delle banche dati di fisco e previdenza, nessuno dorme più sonni tranquilli. Il pm che se ne occupa si chiama Paolo Storari, ed è in forza alla dda. L’ultima multinazionale finita nei guai è la Dhl Express Italy srl. Ogni giorno provvede al recapito dei pacchi e alle spedizioni in ogni angolo del mondo; i suoi furgoni gialli con il logo rosso stampato sulle fiancate li conosciamo tutti. Alla fine di febbraio, al termine di un’inchiesta sulle cooperative che somministrano personale a Dhl, Storari e la sua collega Valentina Mondovì hanno scoperto una gigantesca frode fiscale sull’Iva, con fatture inesistenti sugli appalti per la fornitura di manodopera, e sfruttamento dei lavoratori. 
Nei confronti di Dhl è stato disposto il sequestro preventivo d’urgenza di una somma di 46,8 milioni di euro. Nel provvedimento dell’autorità giudiziaria, si ravvisano «rilevantissime perdite per l’erario», oltre a un lungo elenco di reati di natura penale. 
Le carte sono state trasmesse all’ufficio del giudice per le indagini preliminari. E qualche giorno dopo il gip, Luca Milani, ha convalidato il sequestro della somma milionaria, riconoscendo due dati di fatto. Primo: le cooperative che lavoravano in appalto per la società facevano dei loro uomini ciò che volevano, letteralmente. Secondo: i committenti ne erano a conoscenza, e devono essere considerati «i veri datori di lavoro».
Ci sono stati controlli sulle condizioni di lavoro di 918 autisti e 538 mezzi. La polizia giudiziaria ha bussato ai magazzini e agli hub Dhl disseminati in 30 province italiane. E ha interrogato 676 lavoratori: contratti, incarichi, orari, riposi, retribuzioni. Bilancio? Su 51 società appaltatrici, quasi una su tre (15 aziende) è risultata del tutto irregolare: le violazioni non riguardano solo salari da fame e condizioni di lavoro umilianti, contributi non versati e ritorsioni, ma investono anche la formazione, la sicurezza, l’omessa sorveglianza sanitaria. Undici titolari e legali rappresentanti delle ditte ispezionate sono stati denunciati. In un hub in provincia di Milano sono stati scovati sette lavoratori in una condizione tale di sfruttamento che ha spinto la procura a formulare anche l’accusa di caporalato. Altro che diritti, altro che pane e rose.
Un caso isolato? Macché. Se invece di concentrarci sulla singola inchiesta proviamo a unire i puntini e a osservare il fenomeno nel suo insieme, la fotografia del mondo del lavoro in queste città d’Italia è sconfortante. E ha davvero ragione Manfredo Alberti quando, nel suo libro Il lavoro in Italia (Carocci editore), a proposito della vita di queste persone, in maggioranza extracomunitarie, osserva: «Le modalità rievocano l’alienazione e le forme di sorveglianza del Novecento». 
I fascicoli che si accumulano al sesto piano del palazzo di giustizia di Milano raccontano queste modalità meglio di qualunque saggio. Sul frontespizio ci sono i nomi delle aziende che negli anni si sono trovate a fare i conti con le leggi dello Stato e non con quelle del mercato selvaggio di uomini e merci. Eccone alcune: Gls, Geodis, consorzio Metra, Brt, Esselunga, Uber eats, fratelli Beretta, Carrefour, Schenker, SicurItalia, Mondialpol, Cegalin-Hotelvolver, Chiapparolo, Gxo, Fema, All System, Battistolli, Lidl, Italtrans, Amazon, Fed Ex, Armani, Dior, Alviero Martini. 
Tutte sono state accusate di schiacciare i costi facendo ricorso al fragile schermo dell’esternalizzazione dei servizi, pratica che favorisce l’elusione delle imposte e lo sfruttamento dei lavoratori. Tutte si sono viste recapitare provvedimenti di sequestro per milioni di euro. Alcune sono state poste in amministrazione giudiziaria, e sono ripartite solo dopo avere ripulito le loro filiere. Ma nessuna, fino a oggi, ha fatto ricorso. Nessun procedimento è arrivato a processo. 
Basta aprire una pagina di questi faldoni, una sola, a caso, per capire come funzionano le cose. Formalmente, c’è la cooperativa con il suo organigramma e l’immancabile codice etico: «L’azienda intende trasformare in un vantaggio competitivo la conoscenza e l’apprezzamento dei valori etici che le animano diffusamente…». Ma sotto la patina della buona amministrazione e della rispettabilità, ci sono telefonate come quella che segue. Il titolare di un’azienda di autotrasporto parla con la moglie, e sembra di ascoltare un dialogo tratto dal Capitale umano di Paolo Virzì (ricordate Fabrizio Gifuni? «Abbiamo scommesso sulla rovina di questo Paese, e abbiamo vinto!»). Dice l’autotrasportatore: «Prendendola tutta in leggerezza come ho fatto io, abbiamo vissuto come si deve e abbiamo un milione sul conto! E abbiamo una barca che vale mezzo milione!». 
Ma per un imprenditore che si vanta del suo tesoretto criminale, ci sono le deposizioni di migliaia di lavoratori dei più svariati ambiti professionali raccolte dalla Procura. Come quella di E.F, professione rider. Racconta: «Mi hanno offerto una collaborazione pagata 3 euro a consegna. Ma alla fine di ogni settimana, quando ricevo i soldi, mi contestano in modo arbitrario comportamenti non corretti o prestazioni non in linea con i loro standard. E lo stipendio cala anche del 30 per cento». O come Maria Cristina M., assunta da una ditta che fornisce personale per la sorveglianza non armata di farmacie e supermercati. Interrogata dalla polizia giudiziaria della Procura, ha fatto mettere a verbale: «L’azienda, pur avendo piena conoscenza del mio stato di malata oncologica, con patologia riconosciuta mediante attribuzione di invalidità civile, non mi ha concesso di fruire dei permessi che la legge concede…». Domanda dell’agente: «Perché ha accettato quel lavoro?». Risposta: «Anche se lo stipendio era molto basso, mi serviva. Come faccio a mantenere la mia famiglia?».
Visto dalla Procura, attraverso la lente degli accertamenti e delle intercettazioni, il sistema che si regge sullo sfruttamento di lavoratori italiani e immigrati – tantissimi immigrati: regolari, irregolari, richiedenti asilo – va bene a tutti: il committente risparmia sui costi, l’intermediario guadagna sull’appalto e sull’evasione fiscale e contributiva, il cliente finale non si fa troppe domande. 
Certo, c’è anche chi ci perde, ma a chi importa? A chi interessano quegli enormi serbatoi di manodopera a prezzi stracciati che alimentano un’economia malata? Con le sue inchieste, il pm Storari, qualche risultato lo ha raggiunto: nel corso degli anni, 33 mila persone sono state stabilizzate e la riscrittura di alcuni contratti collettivi di lavoro (fiduciari, portieri) che pure erano stati sottoscritti dai datori di lavoro e da tutti (tutti!) i sindacati ha portato ad aumenti in busta paga fino al 40 per cento. 
A perderci, ovviamente, è anche lo Stato. Milioni su milioni di tasse evase. Ma l’erario qualcosa sta recuperando: ha già incassato 600 milioni degli 800 sequestrati, perché davanti alle contestazioni della Procura le aziende preferiscono pagare piuttosto che affrontare un processo. La stessa Dhl oggi fa sapere, attraverso il proprio ufficio stampa, che preferisce non commentare «per una forma di rispetto nei confronti degli organi inquirenti».
Come in tutti gli uffici di tutte le procure italiane, anche in quello del dottor Storari c’è sicuramente una copia della nostra Costituzione. L’articolo 36 recita: «Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro, e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa». —