Niccolò Zancan
inviato a Verbania
Senza medici e senza infermieri. Così muore un ospedale. Di morte lenta? «No. Rapida, rapidissima. Se le cose non cambiano, nel giro di due anni gli ospedali di Verbania e Domodossola non esisteranno più. Nessuno vuole venire a lavorare qui al confine. È un dato di fatto. E un motivo c’è». L’infermiere sindacalista di Nursing Up Filippo Garboli, da otto anni ostinatamente al lavoro al pronto soccorso dell’ospedale Giuseppe Castelli di Verbania, si guarda in giro con aria sconsolata. Pioggerellina. Bruma dal lago. Le montagne incombono. «Qui la Svizzera è troppo vicina per non sentirne il richiamo», dice.
Come sempre il confine è il posto che rivela in anticipo quello che sarà. È a questa frontiera, quindi, che bisogna venire per misurare lo stato di salute della sanità italiana dopo gli anni delle grandi promesse. È cambiato qualcosa dopo il Covid? «Gli infermieri non sono più eroi. Adesso sono tornati quelli di prima. Con l’aggiunta di una rabbia crescente. Gli insulti contro di noi sono all’ordine del giorno. La gente è sempre più insofferente».
I bandi continuano a andare deserti. L’ultimo per tre posti in cardiologia aveva due pretendenti, ma all’ultimo momento hanno rinunciato entrambi per qualcosa di meglio. Meglio è la Svizzera che ti paga il triplo. Meglio è la sanità privata. Meglio è fare il medico a gettone. Quel medico che parte da una cooperativa e va a tappare un buco in un ospedale pubblico, chiamata dopo chiamata. È richiesto in tutta Italia. Prende 1000 euro per un turno di dodici ore di lavoro, che diventano 300 al netto delle tasse. Ma sono pur sempre 300 euro al giorno. Trecento euro a chiamata. Mentre qui lo stipendio di un assistente medico è di 2600 euro al mese, e quello di un infermiere del pronto soccorso arriva a 1700 euro con le notti. «Io resisto perché penso che sia giusto stare nella sanità pubblica, ma capisco tutti quelli che a un certo punto si arrendono e vanno altrove. Da noi saltano i turni, saltano le vacanze. Siamo troppo pochi. Ti portano allo sfinimento. Ti viene il burnout. Mentre facendo avanti e indietro con l’ospedale di Locarno diventi ricco. Hai lo stesso tenore di vita italiano, ma lo stipendio svizzero».
Se mancano medici e se mancano infermieri, le attese si allungano. È una questione algebrica: c’è troppo lavoro per troppe poche mani. «Mia moglie aveva un dolore al fianco. Siamo arrivati alle 12, l’hanno visitata alle 14,30, ce ne andiamo alle 16», dice il signor Giovanni Lombardo. La direttrice generale dell’Asl del Verbano Cusio Ossola, Chiara Serpieri, non nasconde le difficoltà: «Siamo in un momento davvero critico del nostro sistema. Ci stiamo arrabattando in tutti i modi possibili per trovare risorse che però sul mercato – anche quando ci sono – alla fine preferiscono altre collocazioni. È un momento complicato per l’intero sistema sanitario nazionale. Paghiamo delle scelte sbagliate. E adesso la situazione è questa: noi dobbiamo erogare servizi che non sono comprimibili, ma mancano i professionisti. Quindi ci troviamo di fronte a una scelta obbligata: o rivolgersi ai cosiddetti gettonisti o non garantire le cure».
Dopo anni di numeri chiusi e baronie universitarie, la sanità italiana sta implodendo. Al confine si vede bene. Implode per un meccanismo di vincoli che impedisce a un dirigente di rendere più attrattivo un contratto da medico o da infermiere in un territorio definito «logisticamente svantaggiato». Ed ecco, quindi, tre delle tante conseguenze del cortocircuito. Medici in pensione, come per esempio il dottor Carlo Maestrone, fino a giugno primario di Rianimazione e anestesia a Verbania e Domodossola, rientra per altri due anni come consulente privato tre volte a settimana per sopperire alla mancanza di medici: «Non c’era altro modo per poter raggiungere l’età massima di lavoro nel pubblico di 72 anni senza rimetterci troppo. Così riesco a garantire 150 ore di sala operatoria in più». Ancora: medici interni di questi ospedali di confine si tagliano le ferie finché ce la fanno, per cercare così di ridurre il ricorso ai medici gettonisti. Ma poi i medici gettonisti arrivano comunque. E come arrivano, se ne vanno. Il che fa venire meno la continuità delle cure, così con il paziente cronico ogni volta si ricomincia da capo. E ha pure ragione il dottor Fabrizio Comalta, responsabile di Pediacoop, cooperativa di medici gettonisti nata proprio in questa terra di confine, che non sono loro il male assoluto: «Mandiamo medici al Gaslini di Genova, al Sacco di Milano, li mandiamo dappertutto, non solo negli ospedali al confine con la Svizzera. Stiamo salvando il sistema. L’Italia deve adeguare gli stipendi».
Così non funziona, questo è sicuro. «Mi fa male, ma non riesco a biasimare il mio amico che adesso fa l’infermiere a Locarno», dice ancora l’infermiere Filippo Garboli. Sono scelte. Sono atti di resistenza.
Anche l’assessore regionale alla Sanità, Federico Riboldi, sa che il sistema rischia di non reggere: «C’è una carenza oggettiva di medici non facilmente risolvibile. Ieri ne abbiamo parlato in commissione a Roma. Stiamo cercando di identificare Paesi con alta competenza medica. Lavoriamo per portare in Italia professionisti dall’estero. Per le zone svantaggiate servono incentivi economici. Abbiamo iniziato una sperimentazione: offriamo 500 euro in più per chi verrà a lavorare come medico nel Verbano Cusio Ossola. E presto vogliamo estendere lo stesso incentivo alle altre zone disagiate del Piemonte».
È una questione di soldi, di cura, di vita. Cioè di stipendi. È la grande questione italiana. —