Giovanni Valentini
Ha ragione Beppe Grillo a dire che “la politica, nella sua essenza più pura, non deve essere un mestiere, ma una nobile missione”. E ha ragione pure Giuseppe Conte a rimettere in discussione il limite del doppio mandato parlamentare, in vista dell’Assemblea costituente dei Cinquestelle in programma per ottobre. Il fondatore e garante del M5S difende un principio che dovrebbe valere per tutte le forze politiche. L’attuale presidente intende aggiornarlo in rapporto all’evoluzione del Movimento e alla necessità di incrementarne l’esperienza e l’affidabilità. Hanno ragione entrambi, insomma, ma in contesti e prospettive diversi.
Sono trascorsi ormai 15 anni da quando il M5S fu fondato a Milano, il 4 ottobre 2009, e nel frattempo i “grillini” – come venivano chiamati allora, con una punta di malcelato disprezzo – sono entrati a pieno titolo in quelle istituzioni che volevano cambiare, magari per “aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno”, secondo la velleitaria espressione che a quell’epoca sbandieravano. Nell’arco di questi tre lustri, si sono presentati a diverse elezioni, locali e nazionali, risultando nel 2018 il primo partito con il 32% dei voti. Hanno fatto parte di tre governi, di cui i primi due guidati direttamente dal loro leader: il Conte-1, il Conte-2 e poi il governo Draghi. Da forza antagonista e anti-establishment, dunque, i Cinquestelle si sono per così dire emancipati. Lungo la strada, hanno commesso alcuni errori e ottenuto anche rilevanti successi: dall’efficace gestione dell’emergenza sanitaria per la pandemia di Coronavirus ai fondi europei del Pnrr procurati dal secondo governo Conte. E ormai, come hanno riconosciuto da tempo l’ex premier e più recentemente numerosi parlamentari, è stato archiviato il mantra “uno vale uno” incarnato dall’ex capo politico, Luigi Di Maio, con tutto il suo bagaglio di impreparazione, improvvisazione e inesperienza. Quello fu un “sogno”, un’illusione o uno slogan che ha ipotecato l’immagine e la credibilità dei Cinquestelle e ancor oggi li penalizza nella percezione di larga parte dell’opinione pubblica. Non sempre è vero che uno vale uno: dipende da chi è quell’uno e da che cosa è chiamato a fare, quali ruoli o responsabilità deve assumere e quali compiti deve svolgere. Vale in politica come nella vita e nel calcio. Assurto per “grazia ricevuta” alla carica di Rappresentante speciale dell’Unione europea per il Golfo Persico – sproporzionata alle sue capacità e ai suoi meriti, a parte quello di aver ordito una scissione per cercare di puntellare come una “mosca cocchiera” il governo Draghi – l’ex vicepresidente del Consiglio ed ex ministro degli Esteri s’è abbandonato nei giorni scorsi a dichiarazioni scomposte e sfrontate. Fino a lanciare insinuazioni contro entrambi i contendenti: “Sembra che Grillo abbia smarrito il suo coraggio. E forse le ragioni sono almeno 300.000… In pochi mesi Conte gli porterà via anche l’argenteria. E poi gli cancellerà il contratto di consulenza”. Ma il suo è un intervento che non giova alla crescita del Movimento e rischia semmai di dividerlo e indebolirlo. In questa ottica, il tabù dei due mandati non ha più ragion d’essere in quanto criterio assoluto e immutabile. Non si tratta di ridurre la politica a un mestiere o a una professione, per arrivare agli eccessi della partitocrazia che ha mummificato tanti parlamentari tramutandoli in politicanti, opportunisti e trasformisti. A quel mito delle origini, tuttavia, si possono applicare oggi varianti ed eccezioni, come auspica Conte rimettendo la decisione alla base. E tutto ciò, proprio per assicurare al M5S una dote maggiore di competenza, capacità ed esperienza. Per renderlo, insomma, più incisivo e affidabile agli occhi dell’elettorato. Da padre-padrone del Movimento, il fondatore rivendica il diritto “monarchico” di decidere e stabilire da solo, o con pochi intimi, che non si possono cambiare simbolo e nome (“Non sono negoziabili”). E forse qui non ha tutti i torti. Ma la sua è una tutela proprietaria del “marchio di fabbrica” che entra in contrasto con il limite del doppio mandato. Sarebbe proprio questo, invece, il fattore di maggior rinnovamento e potenziamento per i Cinquestelle, opportunamente regolato da norme interne approvate magari dalla Costituente.
Al M5S, piaccia o meno, si deve riconoscere un grande merito: quello di aver drenato e rappresentato finora un dissenso che altrimenti sarebbe potuto sfociare in protesta e ribellione. È arrivato il momento, però, di fare un salto di qualità. Non certo per omologarsi ai vizi e ai difetti della partitocrazia; ma piuttosto per raccogliere un maggior numero di consensi e contare di più all’interno dello schieramento progressista, in funzione di un’alternativa democratica. E per difendere meglio così gli interessi e i bisogni dei cittadini, tutelare l’etica e la legalità, favorire la giustizia sociale.
