Venezia, lo scandalo degli appalti pilotati I pm: “Politici a disposizione dei privati”

LAURA BERLINGHIERI
VENEZIA
Per determinati affari, esisteva un “sistema Venezia”. Fatto di un tessuto imprenditoriale che chiedeva di forzare la mano, per aggiudicarsi gli appalti alle condizioni più favorevoli. E fatto di politici compiacenti, che non si tiravano indietro nel piegare la macchina amministrativa per assecondare i privati.
Una metastasi nella “cosa pubblica” veneziana, nuovamente travolta 10 anni dopo lo scandalo del Mose. Coinvolta dalla testa ai piedi: Giunta, dirigenti, funzionari del Comune e delle sue società partecipate. Il sindaco Luigi Brugnaro indagato per corruzione in concorso con il suo capo di gabinetto e direttore generale del Comune, Morris Ceron, e con il vice capo di gabinetto, Derek Donadini. L’assessore alla Mobilità Renato Boraso indagato per corruzione, concussione e autoriciclaggio, arrestato e ora in carcere a Padova. Indagati anche Giovanni Seno e Fabio Cacco, direttore generale e responsabile del settore appalti di Avm, la società del trasporto pubblico locale.
Più di 20 indagati, 15 misure cautelari e sequestri preventivi per un milione di euro. Duecento agenti della guardia di finanza al lavoro ieri, dalle prime ore dell’alba: culmine di un’indagine innescata da un esposto di fine 2021, coordinata dai pm Roberto Terzo e Federica Baccaglini e che si è svolta soprattutto nell’ultimo anno e mezzo. «Indagini classiche, con le intercettazioni telefoniche e ambientali. E con il riscontro di quanto emerso nelle telefonate» ha spiegato il procuratore capo di Venezia, Bruno Cherchi.
Dall’ordinanza del gip Alberto Scaramuzza emerge questo: 6 persone interdette per 12 mesi dai pubblici uffici, 7 funzionari ai domiciliari e due indagati in carcere in via cautelare. Si tratta dell’imprenditore edile Fabrizio Ormenese e di Renato Boraso.
È lui l’uomo chiave attorno alla quale ruota buona parte dell’inchiesta. Si rivolgeva a lui, il 17 marzo 2023, il sindaco Brugnaro in una telefonata (intercettata): «Tu non mi ascolti, tu non capisci un c… Mi stanno domandando che tu domandi soldi. Tu non ti rendi conto, rischi troppo. Se io ti dico di stare attento, ti devi controllare». E l’assessore lo avrebbe ascoltato, ma un anno dopo, tentando di disfarsi delle prove a suo carico.
Renato Boraso, una vita nel centrodestra cittadino: da Forza Italia alla lista Brugnaro, accanto al simbolo di Coraggio Italia, il partito fondato dal sindaco con Giovanni Toti. Uomo della pubblica amministrazione, in realtà a disposizione degli imprenditori, per conto dei quali interveniva sugli uffici comunali – «ridotti al servizio del privato», si legge nell’ordinanza del gip – per orientare le aggiudicazioni degli appalti. Uomo della pubblica amministrazione, che «ha sistematicamente mortificato la propria pubblica funzione, svendendola agli interessi privati».
La procura gli contesta 11 episodi, dal 2015. Macroscopico è il caso della vendita al ribasso di Palazzo Papadopoli, a Venezia, dal 2018 di proprietà del magnate Ching Chiat Kwong, riuscito ad aggiudicarselo per poco più di 10 milioni di euro, nonostante il suo valore si attestasse attorno ai 14 milioni. Per il favore, l’assessore avrebbe ottenuto 73.200 euro sotto forma di consulenze – mai avvenute – da parte della società Stella Consulting, di cui Boraso è azionista insieme alla moglie.
E alla svendita del palazzo sono legate anche le posizioni di Brugnaro e dei suoi due collaboratori. I quali – è la teoria della procura – avrebbero accettato di abbassarne sensibilmente il prezzo di vendita, «attraverso atti contrari ai doveri di ufficio», per agevolare un’altra operazione, sempre con il magnate di Singapore, decisamente più cara al sindaco: la cessione dell’area dei Pili.
Si tratta di un terreno affacciato sulla laguna, di proprietà di Brugnaro, che lo acquistò per 5 milioni di euro, ma che vide schizzare il suo valore negli anni della sua amministrazione, grazie al nuovo Piano comunale urbano di mobilità sostenibile, che proprio lì avrebbe piazzato il nuovo palasport. Circostanza che aveva fatto ingolosire Ching Chiat Kwong.
Ha queste coordinate l’imputazione di Brugnaro, Ceron e Donadini. I quali avrebbero concordato con il magnate di Singapore il versamento di 150 milioni di euro «in cambio della promessa di far approvare, grazie al loro ruolo nell’ente comunale, il raddoppio dell’indice di edificabilità sui terreni in questione e l’adozione delle varianti urbanistiche che si sarebbero rese necessarie per l’approvazione del progetto edilizio ad uso anche commerciale e residenziale della volumetria di 348.000 mq, che sarebbe stato approntato e presentato da una società di Ching».
Brugnaro nega – le accuse sui Pili e su palazzo Papadopoli, ceduto «secondo una procedura trasparente» – e si dice a disposizione della magistratura. Ma intanto ha convocato una riunione urgente della Giunta, per oggi, mentre l’opposizione ne chiede le dimissioni.
