I giudici del Tribunale del Riesame di Genova hanno respinto l’istanza di revoca degli arresti domiciliari per il presidente della Regione Liguria Giovanni Totiarrestato il 7 maggio scorso con l’accusa di corruzione. Toti resta dunque in stato di custodia cautelare nella sua casa di Ameglia (La Spezia). Il suo difensore, l’avvocato Stefano Savi, aveva chiesto la cessazione della misura o in subordine l’attenuazione nell’obbligo di dimora ad Ameglia (il comune nello Spezzino dove Toti risiede) o nel divieto di dimora a Genova: la Procura, rappresentata dai pm Federico ManottiLuca Monteverde, ha dato parere negativo. Il legale del governatore aveva anticipato che in caso di diniego avrebbe fatto ricorso in Cassazione. L’istanza era già stata respinta a giugno dalla gip Paola Faggioni, che aveva ritenuto ancora sussistenti le esigenze cautelari di reiterazione del reato e di inquinamento delle prove.

Nel suo appello al Riesame contro la decisione, l’avvocato Savi aveva scritto che, in caso di liberazione, Toti non avrebbe più chiesto o ricevuto finanziamenti elettorali da imprenditori interessandosi nel frattempo alle loro pratiche, pur negando che quelle condotte costituissero reato. Secondo i giudici Massimo Cusatti, Marina Orsini e Luisa Avanzino, però, il governatore potrebbe reiterare il delitto proprio “in quanto ha dimostrato di non aver compreso appieno la natura delle accuse”: l’impegno di “astenersi da condotte analoghe suona come una sterile presa d’atto della fondatezza di accuse che pure non si è voluto, nell’esercizio delle proprie prerogative difensive, ammettere nel corso dell’interrogatorio. V’è un’insolubile contraddizione“, si legge nell’ordinanza, “tra la professata “consapevolezza” di Toti e il suo atteggiamento di rivendicazione di aver agito sempre nell’interesse pubblico: o si sostiene con vigore quest’ultimo, e allora non si vede perché ci si debba coartare fino a promettere di non agire più con modalità di cui si continua a rivendicare legittimità e correttezza, oppure si è capito di avere agito illecitamente, e allora non si vede come si possa affermare, nell’ammettere la materialità dei fatti, che questi non integrano i reati oggetto delle accuse”.

Le ipotesi di corruzione, scrivono i magistrati, sono “sorrette da gravi indizi che Toti non ha inteso contestare”, e non riguardano “un illecito di natura veniale, ma integrano un vulnus tra i più gravi che possano essere inferti al buon andamento dell’azione amministrativa, allo stesso rispetto della volontà popolare e ai diritti dei terzi”. L’ordinanza si sofferma anche sull’interrogatorio reso dal governatore ai pm il 23 maggio scorso: “L’interrogatorio di Giovanni Toti, infarcito da “non ricordo“, non ha brillato per chiarezza e trasparenza. I pretesi accordi corruttivi scaturiscono da puntuali intercettazioni ambientali e telefoniche che hanno cristallizzato i contorni delle accuse”. Dai nastri, si legge, emerge “il quadro di un pubblico amministratore di rango apicale che, nel sollecitare costantemente finanziamenti per il proprio comitato elettorale, conversa amabilmente con gli stessi “finanziatori” di pratiche amministrative di loro interesse per le quali si impegna a intervenire presso le sedi competenti”. Per questo sussiste una “persistente pericolosità” di Toti, che non è legata alla sua attività politica – su cui ha insistito il “consulente” della difesa Sabino Cassese – ma alla possibile influenza sull’attività amministrativa della Regione per favorire interessi di parte.