SE IL CAMPO LARGO È NELLE MANI DI CONTE

La piazza, senza dubbio, è un po’più “larga” di prima. E non c’è dubbio che, sulla mobilitazione, la segretaria del Pd funzioni: gay pride, piazza “anti-fascista” contro il premierato, la Latina dei dannati della terra. Queste mobilitazioni, in posti simbolici e su istanze simboliche, rappresentano, al tempo stesso, il suo habitat naturale e il modo per tenere vivo il mood positivo e militante delle Europee alla vigilia dei ballottaggi. 
Per abusare della metafora del famoso bicchiere, la parte mezza piena è che, per necessità o convinzione, bon gré mal gré, ciò che prima avveniva in ordine sparso, avviene (almeno per ora) nello stesso luogo. La retorica del “campo largo” che rinasce in piazza, però, si presta a un’analisi un po’ più problematica. L’effetto ottico, in parte, è quello. E tuttavia, e questo è il primo elemento, finora siamo davanti a piazze del “no”, della protesta e della legittima indignazione, dove si va non solo per afflato unitario, ma anche per non lasciare il monopolio (della protesta e dell’indignazione) solo agli altri. 
In uno slancio di ottimismo, la segretaria del Pd ha parlato, a proposito di alleanze, di “strada segnata”. Attorno, però, da un lato – al centro – c’è il deserto, dall’altro un’incognita, non da poco, che riguarda la natura e la collocazione dei Cinque stelle. Il paradosso è che il destino del campo largo è nelle mani di Conte. E come direbbe Peppino a Totò: «Ho detto tutto». È cioè nelle mani di colui che, in questi mesi e anni, lo ha inzeppato di condizioni e distinguo, in chiave competitiva: dalla collocazione internazionale fino agli assetti. Lo schema, in sostanza, è stato: si fa, ma alle mie condizioni, perché non sarò mai un cespuglio del nuovo Ulivo. 
Insomma, ha negoziato, sempre, al rialzo, il “come”. Adesso però, Conte, che «ha preso da vivo meno voti di Berlusconi da morto» (copyright di Beppe Grillo) è sfidato al suo interno da chi invoca il ritorno alle origini e uno splendido isolamento. Sarà velleitario quanto si vuole, ricercare una verginità dopo averla perduta con Salvini, Pd, Draghi e Berlusconi. E tuttavia tant’è. La tenzone non è più sul “come”, ma sul “se” del campo largo. E qualora l’ex premier fosse costretto a farsi da parte, si romperebbe ogni ipotesi di centrosinistra. L’alternativa (diavolesca) è tra Conte, con tutte le sue ambiguità, e la fine del rapporto. 
Probabilmente l’ex premier non mollerà, perché il suo Movimento è un partito personale di eletti che devono a lui l’elezione e, per molti versi più autonomo rispetto a un fondatore che invece ne è dipendente per ragioni economiche. Però il suo essere sub iudice aggiunge rigidità a quelle, non poche, che già c’erano prima. Proprio perché ha l’esigenza di “coprirsi al suo interno”, l’ex premier dovrà far vedere che non può “sbragare” nel rapporto col Pd, assecondando una certa radicalizzazione da primum vivere. Non è un caso che, da quando si è votato, Conte si è pressoché inabissato e l’unica uscita politica l’ha fatta non su un terreno unitario, ma squisitamente identitario, facendo autocritica sulla partecipazione al governo Draghi (assieme al Pd). Anche a Latina, si è limitato a mandare qualche Carneade regionale del Movimento evitando la seconda foto di gruppo in settimana nella “piazza di Elly”. E la conclusione della storia su quale approccio prevarrà, non sarà né facile né breve. Qui il bicchiere è evidentemente mezzo vuoto. E di “segnato” c’è assai poco.