Zaratti (Avs) e Vaccari (dem) si dimettono: “I 3 di destra avvalorano le bugie di Meloni”. Conte: “Sciogliete la commissione”

Luca de Carolis

Il giurì d’onore esplode verso sera. “Ci dimettiamo”, scrivono al presidente della Camera Filiberto Zaratti di Alleanza Verdi e Sinistra e il dem Stefano Vaccari. Sono due dei cinque membri della commissione speciale parlamentare, quella che dovrebbe stabilire se Giorgia Meloni abbia leso l’onore di Giuseppe Conte con le sue dichiarazioni alle Camere sul Mes dello scorso dicembre, quando accusò il leader del Movimento di aver fatto approvare il fondo salva Stati “con il favore delle tenebre, un giorno dopo essersi dimesso da premier”.
Al leghista Lorenzo Fontana i due deputati spiegano nero su bianco le ragioni dell’addio, con pochissimi precedenti nella storia di Montecitorio (il primo risale al 1950). “È venuta meno la terzietà del giurì, vogliono avvalorare la versione accusatoria della presidente Meloni”, sostiene Vaccari. “La ricostruzione documentale non può essere oggetto di interpretazioni di parte”, si lamenta Zaratti. Così Conte, furibondo, scrive subito anche lui a Fontana e per conoscenza al presidente del giurì, il forzista Giorgio Mulè, chiedendo lo scioglimento della commissione: “Apprendo con grave sconcerto che sono venuti meno i presupposti di terzietà e la possibilità di pervenire a una ricostruzione imparziale dei fatti”.
È quella l’accusa dei due deputati di centrosinistra. A loro avviso i tre commissari di destra hanno piegato i fatti al loro obiettivo politico, cioè favorire la premier. E pazienza per la montagna di documenti – a partire dai resoconti parlamentari – depositata alla commissione dal presidente dei 5Stelle, che li aveva portati con sé nell’audizione del 18 gennaio. Ma il presidente della commissione, il forzista Giorgio Mulé, respinge le accuse. Lui aveva comunque riunito il giurì, alle 18.30: “Abbiamo appreso delle dimissioni a lavori in corso”. E giura: “Sono sorpreso e amareggiato dalla loro decisione, mai fin dalla prima seduta del 10 gennaio e per le successive sei, Vaccari e Zaratti avevano manifestato lagnanze o sollevato proteste rispetto all’organizzazione e all’evolversi dei lavori. Martedì avevamo definito il 90 per cento della relazione”. Così il forzista chiosa: “La commissione sta ancora lavorando alla relazione”. Tradotto, il giurì va avanti. Anche dopo la rottura, arrivata dopo una teoria di riunioni coperte da segreto e ufficialmente svoltesi sempre “in un clima di concordia”, come assicurava dopo ogni seduta proprio Mulè, che all’inizio dei lavori aveva dichiarato: “Dovremo essere imparziali come magistrati”. Ma tutto era andato storto già nella seduta di martedì, aggiornata a ieri mattina e poi alla serata per cercare di rimettere assieme i cocci e finire la relazione entro il termine previsto di dopodomani. Però la distanza tra i commissari di destra (Mulè, assieme al leghista Fabrizio Cecchetti e ad Alessandro Colucci, di Noi Moderati) e gli altri due era già diventata frattura.
A far detonare tutto, la discussione sulla seconda parte della relazione, quella dove andava espresso il giudizio sui fatti. Il cuore della relazione, che da regolamento va letta all’aula di Montecitorio ma non può essere né discussa né votata. “Così non va, se non ci aggiorniamo lascio il giurì” avrebbe minacciato Zaratti. Per lui e Vaccari, la relazione stava virando verso le ragioni della premier, senza basarsi sui riscontri oggettivi. La miccia delle dimissioni. “Nella seconda parte del testo – scrive il deputato di Avs – si adducono motivazioni di ordine unicamente politico, finalizzate ad avvalorare le tesi accusatorie di Meloni”.
Sulla stessa linea Vaccari: “Come stabilisce l’articolo 58 dello statuto della Camera, il giurì deve limitarsi ad accertare il fondamento o meno delle accuse rivolte da un parlamentare in aula nei confronti di un altro collega e verificare i fatti per come si sono svolti alla luce della documentazione acquisita. Ma nella relazione sono prevalse motivazioni di ordine politico e interpretative che contrastano con la realtà dei fatti”. E da Palazzo Chigi? Nessun commento, è la risposta. Ma il caso del giurì è appena divampato.