Giandomenico Crapis

Il servizio sanitario pubblico rischia di diventare un ricordo del passato. Le cause le abbiamo raccontate più volte: i tagli che da vent’anni assottigliano le risorse, il mancato turnover nei reparti, la cancellazione di ospedali e pronto soccorso anche laddove necessari, il mancato (a fronte di ciò) potenziamento delle strutture rimanenti, la medicina sul territorio che arranca, e poi l’assurdo permanere del numero chiuso e di regole incomprensibili di accesso alla professione per i neolaureati. Ma un ruolo nella crisi ce l’ha anche la medicina di base, stravolta negli ultimi anni, e dopo il Covid, da modalità di accesso per i pazienti e gli assistiti assolutamente incongrue. La crisi dei Pronto Soccorso, che non a caso ha colpito di più i grossi centri che le città più piccole, con l’iperafflusso di pazienti influenzati e affetti da Covid ci offre lo spunto per sottolinearlo.
Il medico di base da vent’anni ha cambiato modo di lavorare: con segretarie, in associazione con altri colleghi, con l’uso delle tecnologie. Novità che spesso sono state un beneficio per il paziente il quale può ritirare la ricetta senza fare fila, se non trova il proprio medico ne trova un altro, infine può richiedere e ricevere via mail le prescrizioni, modalità introdotta con la pandemia per la necessità di diradare i contatti. Ora che però la pandemia non c’è più questo ‘distanziamento’ tra il medico e il paziente persiste, anzi alcuni, ma non pochi, ne hanno fatto pratica definitiva.
Succede allora che se un paziente ha una febbre, una sciatalgia acuta o un dolore all’anca che non lo fa camminare, un dolore toracico o addominale persistente, una tosse che non lo fa riposare, si trovi oggi molto spesso nella condizione di non poter accedere liberamente al suo medico perché la segretaria gli fissa l’appuntamento alcuni giorni dopo. Questo perché molti medici di famiglia, soprattutto dopo il Covid (ma succedeva anche prima) hanno deciso che le visite si fanno su prenotazione! Tra l’altro se il paziente ha una patologia che gli rende molto difficile o impossibile recarsi dal dottore, vedere un medico che si reca a casa dal paziente è davvero cosa non frequente nelle grandi città. Se, dunque, nell’ambulatorio del medico di base che è il primissimo presidio di salute per il cittadino ed è sempre stato aperto ai pazienti senza nessun filtro (lo è stato fino a un paio di decenni fa, naturalmente negli orari previsti), adesso è più difficile accedere, se il medico non va a casa di un malato magari con la febbre alta e sintomi che preoccupano i familiari, se il medico non parla con i pazienti ma ci parlano le segretarie, è evidente che per essere rassicurati si ricorra al Pronto Soccorso. Con le conseguenze che vediamo. È un punto questo di cui non si parla (ma molto sentito dai cittadini) che contribuisce oggi al marasma della sanità. È un nodo che le Asp devono sciogliere con un apposito disciplinare che limiti le visite su prenotazione a casi circoscritti. La prova di ciò è che nelle città meno grandi è meno frequente che i Ps vadano in tilt, perché qui i medici mantengono un rapporto di prossimità con i pazienti favorito dalle dimensioni della comunità.
P.s. Sul Corriere il prof. Cassese ha detto che per la sanità ci vuole una riforma, di cui ha tracciato linee alquanto vaghe. Noi invece saremo più concreti: abolizione dell’odioso numero chiuso, apertura dei concorsi ai neolaureati (oggi è vietato), ripristino della legge Bindi per cui chi lavora nel servizio pubblico non può avere rapporti con il privato pena l’impossibilità di fare carriera, cosa che avrebbe l’effetto di rendere disponibili molti più medici per far fronte alle lunghe liste di attesa per esami e prestazioni esterne.