L’INCHIESTA
Paolo russo
ROMA
Il film è già visto. Camici bianchi che lasciano o si tengono alla larga dagli ospedali pubblici per rientrare da «gettonisti» pagati due-tre volte tanto. Solo che questa volta protagonisti non sono i medici ma gli infermieri, dei quali c’è molta più penuria. All’appello ne mancano da 65 mila a 170 mila, a seconda che il fabbisogno venga calcolato sui posti letto ospedalieri o – come sarebbe più corretto fare – rispetto alla popolazione anziana, in Italia più numerosa che altrove. E di infermieri ne mancano certamente negli ospedali, ma anche nelle Rsa e per i servizi di cure a domicilio.
Così, per turare le falle, Asl e ospedali hanno preso ad affittarli, pagandoli il doppio pur di aggirare le lunghe e burocratiche procedure concorsuali. Senza contare che affittandoli il loro costo va imputato alla voce «beni e servizi» anziché a quella del personale, ancora vincolata a un anacronistico tetto di spesa, fermo ai livelli del 2004, per di più diminuito dell’1,4%.
Quanti siano gli infermieri pagati a gettone è difficile dirlo perché il fenomeno è più recente di quello che coinvolge da tempo i medici. Ma si tratta comunque di un’onda che monta, coinvolgendo un numero già significativo di Regioni dal punto di vista della popolazione assistita. Secondo quanto emerso da una nostra ricognizione, l’assistenza infermieristica data in appalto a cooperative o associazioni professionali è un fenomeno già diffuso in Piemonte, Lombardia, Veneto e Lazio, che messe insieme fanno ben più di un terzo degli assistiti d’Italia. Ma il ricorso ai gettonisti, secondo il sindacato autonomo di categoria Nursing, è destinato a diffondersi rapidamente anche nelle altre Regioni. Con spreco di risorse e pericoli per la salute, dal momento che costano molto di più rispetto ai loro colleghi assunti in pianta stabile e che, non lavorando in équipe professionali stabili, sono più soggetti ad errore.
In Veneto, più specificatamente a Venezia, si è arrivati a pagare l’affitto mensile di un infermiere 6 mila euro, che anche al netto di tasse e contributi fanno circa il doppio dei 1.780 euro netti di un dipendente, sottoposto però a turni decisamente più massacranti.
In Lombardia a farla da padrona è la cooperativa «Sant’Elena», impegnata nel soddisfare le esigenze delle strutture sanitarie che hanno bisogno di infermieri professionali a Milano, Monza, Como, Varese e Lecco, magari anche solo per «coprire le ferie estive o garantire il riposo dei dipendenti», come è specificato nel sito della stessa coop.
Un caso emblematico è quello della Asl Roma 2, che ha dato in appalto l’attività di supporto all’assistenza infermieristica per 10 milioni e mezzo in due anni. La stessa azienda è arrivata alla dispendiosa decisione dopo aver constatato di avere in organico soltanto 42 infermieri per mandare avanti i grandi ospedali di un’area urbana tra le più vaste del Paese, mentre ne servirebbero ben 300. Ma perché non assumere anziché spendere di più restando poi senza capitale umano? Una risposta la fornisce la stessa Asl, spiegando che «l’eventuale internalizzazione del servizio avrebbe richiesto l’acquisizione ex novo di un numero di unità pari al fabbisogno tramite concorso pubblico. Ma dati i tempi ristretti la scelta è ricaduta su un nuovo appalto per ottenere da subito gli infermieri dalle coop». Gare analoghe, informa la consigliera dem laziale, Eleonora Mattia, sono state bandite anche dalla Asl Roma 4. Che non si tratti di casi isolati lo conferma la presidente dell’Ufficio parlamentare Bilancio, Lilia Cavallari, che intervenendo in Camera e Senato a proposito degli infermieri ha evidenziato che «le remunerazioni non sono state adeguate nel tempo, mentre si diffondono forme contrattuali diverse dal lavoro dipendente, mediate da cooperative, con aumenti dei costi e un impatto sfavorevole sull’organizzazione dei servizi». Insomma, più spese e meno qualità.
A documentarlo sono i carabinieri dei Nas, che da Nord a Sud hanno scoperto una serie di irregolarità. In una Rsa della provincia di Torino, quattro dipendenti di una cooperativa sociale sono stati scoperti ad esercitare la professione infermieristica senza titoli abilitanti. Stesso dicasi per un’infermiera extracomunitaria di un’altra Rsa alle porte di Milano, mentre a Cuneo nei guai sono finiti non solo l’infermiera che esercitava abusivamente la professione in una casa di riposo, ma anche il presidente della coop che ha omesso di verificare il possesso dei titoli. Storie di una sanità affamata di personale ma che preferisce sperperare soldi affittandolo anziché investire in un capitale umano che all’estero ci invidiano.
Antonio De Palma, presidente del sindacato autonomo degli infermieri Nursing-Up, dietro il fenomeno degli infermieri a gettone vede un doppio rischio. «Da un lato quello che, non lavorando in team stabili, i professionisti a gettone non riescano a integrarsi opportunamente nei progetti assistenziali, rischiando di non garantire i medesimi standard qualitativi assicurati da chi, avendo il tempo di programmare, seguire e valutare con costanza l’intero percorso di assistenza, è in grado di attuare interventi personalizzati rispetto ai bisogni dei pazienti che gli vengono affidati. Dall’altro, essendo pagati il doppio, la loro presenza finisce per demotivare ulteriormente chi, sottopagato e stressato, lavora in pianta stabile nel pubblico. Dal quale andando avanti di questo passo la fuga sarà inevitabile.
Già oggi sempre più infermieri abbandonano il posto per andare a lavorare nelle cooperative o all’estero». Dove, rispetto alla nostra paga base di 1.500 euro, si guadagnano dai 3 mila euro della Gran Bretagna ai 6 mila euro della Svizzera, quando si è al massimo della carriera. Che agli infermieri made in Italy lascia poche prospettive. Ed anche questo spinge verso coop ed emigrazione. —

