LA STORIA

Andrea Carugati
C’era una volta a Hollywood… Anzi, c’era una volta Hollywood. E non c’era solo per le star, i registi, i produttori. C’era per centinaia di migliaia di persone che orbitano intorno al mondo del cinema e che dalla fabbrica dei sogni traggono sostentamento e soddisfazione. Centinaia di figure professionali, tra cui la mia, che con il cinema sostengono le proprie famiglie, pagano bollette, mutui e affitti cercando di vivere dignitosamente in una città molto costosa e in un sistema che non prevede welfare né cuscinetti sociali. È l’America, babe. Tormentata dalla logica del winner e del looser. O vinci o perdi. E se perdi, non vali, non servi, non sopravvivi. Lo sapevo dal primo giorno, di un giugno di inizio secolo, quando mi sono trasferito, tra timori ed entusiasmo, a lavorare nella città del cinema, che è stata la mia casa per più di vent’anni. Inviato, corrispondente. Non senza fatica, ma riconosciuto e apprezzato punto di riferimento.
Poi è cambiato tutto e come spesso accade non per il meglio. Queste parole le scrivo seduto nell’appartamento genovese che ho scelto come rifugio e riparo una volta realizzato che la bufera sarebbe durata a lungo. In attesa di capire cosa resterà di ciò che è stato. Una scelta obbligata, una scelta condivisa con molti altri colleghi e con un esercito di persone che in un attimo ha visto crollare il mondo che lo circondava e lo alimentava. Una babele di volti, di lingue, di professionalità, di sogni e di speranze. A Hollywood sono un’infinità le categorie che vivevano di cinema, dalle maestranze, ai camerieri, dai fotografi alle compagnie che affittano gli strumenti per fare cinema. Carpentieri, impiegati, autisti, parrucchieri, truccatori, ristoratori e tanti altri.
Non fosse bastato il Covid, che ha impattato sul mondo del cinema in modo devastante. Le sale cinematografiche sono le prime a chiudere e le ultime a riaprire, spesso inutilmente, visto che negli anni della pandemia gli squali dello streaming hanno divorato ciò che restava del desiderio di andare al cinema in una larga fascia della popolazione tormentata anche dall’inflazione e dalla crisi economica.
E poi arriva lo sciopero, prima degli sceneggiatori e poi degli attori, che se tutto va bene finirà a Natale. Sempre che gli studios decidano di rinunciare alla malsana idea di accaparrarsi per pochi spiccioli i diritti di utilizzo dell’identità digitale, così da potere generare al computer per l’eternità i protagonisti dei loro film e decidano anche di condividere con loro una parte degli incassi dovuti ai servizi streaming .
Uno sciopero sacrosanto, legittimo, doveroso. Uno sciopero con cui nonostante tutto io come tanti altri sono solidale. Uno sciopero che però ha dato il colpo di grazia a un’intera economia. Quasi un miliardo al mese, si dice costi in termini di indotto. Una parola fredda, indotto. Una parola che però racchiude la vita e ora la sofferenza di una moltitudine di persone. Una parola che include la benzina con cui riempivo il serbatoio della mia Prius, la cena al ristorante armeno su Hollywood e Normandie, l’affitto del mio appartamento alle pendici della collina dove campeggia la famosa scritta, proprio dove si fermano i turisti per la prima foto al simbolo della città, l’hamburger dell’In&Out su Sunset Boulevard, le mie canne da pesca da usare a Malibu, la tv via cavo, la spesa da Trader’s Joes, una birra tra amici. Il parcheggio negli alberghi dove ho intervistato tutti i protagonisti di questo mondo, il taxi che mi portava all’aeroporto per andare in visita su un set.
Insomma, i bisogni, i piaceri e i doveri della vita, per me e per tanti altri, magari con necessità più importanti, come quella di crescere i propri figli, mandarli a scuola, pagare le cure per qualche malattia. Tutti investiti da una bufera attesa ma anche inaspettata. Come il Big One, il grande terremoto che prima o poi distruggerà la California, sai che prima o poi arriverà, ma non sai quando e speri che non sia presto. Il terremoto però è più democratico dell’economia: chi aveva qualche risparmio se l’è cavata o si è reinventato, ma chi non li aveva si è trovato su una strada, senza niente.
Dopo il Covid infatti già era cambiato molto e un cielo plumbeo incombeva su Los Angeles. Il lavoro, nel terrore del contagio, si era digitalizzato: addio agli incontri di persona, addio ai viaggi, addio alle vere interviste fatte faccia a faccia, ai grandi eventi. Con grande soddisfazione degli Studios, che nella disgrazia avevano trovato un modo per risparmiare sulle spese di promozione e per controllare la stampa, ma che non avevano fatto i conti con il malessere dei protagonisti del mondo del cinema, che alla fine si sono ribellati al loro strapotere. Rischi del mestiere? Certo, Los Angeles, in particolare Hollywood è quella che si definisce una «Gig economy», ovvero un mercato del lavoro che fa molto affidamento su posizioni temporanee, occupate da collaboratori indipendenti e liberi professionisti piuttosto che da dipendenti a tempo indeterminato.
La precarietà è una regola di vita a Hollywood. Non ci sono garanzie e vale anche per gli attori, sia quella moltitudine che con il cinema campava a malapena nella speranza di emergere, sia per quei pochi grandi ben pagati. Ricordo una lunga conversazione con Anthony Hopkins, sì, lui, Il silenzio degli Innocenti, due premi Oscar, centoquaranta film. Poco prima dell’avvento del Covid, mi confessò davanti a una tazza di tè, che dopo l’ultimo ciak di ogni film cui partecipa, monta in lui il terrore di non farne un altro. Ma si figuri, gli dissi. Lei è Anthony Hopkins. «Non vuole dire niente, amico mio – disse – : a Hollywood un attore vale quanto è valso il suo ultimo film». I ricordi sono come le ciliegie, uno tira l’altro e mi viene in mente anche Joaquin Phoenix. A margine di un’intervista, in confidenza, mi disse «tu non te lo immagini nemmeno, ogni film che faccio penso sempre che sia l’ultimo. Mi chiudo in una stanza, anche settimane, al buio. E aspetto che arrivi una chiamata».
Ecco, aspettare. A tutti noi che abbiamo subito le conseguenze, prima del Covid e poi dello sciopero, non resta che aspettare. E magari sperare in un lieto fine, nella migliore tradizione hollywoodiana. In un felice ritorno al passato. Augurandosi che non sia solo un’illusione, un raggio di luce colorata su un telone bianco. —