L’INTERVISTA

Sono passati 7 anni e 103 giorni da quando l’Egitto ha divorato Giulio Regeni. Un infinito calendario di richieste, omissioni, appuntamenti mancati con la verità e la giustizia che si allunga ancora fino al 31 maggio prossimo, quando il gup potrebbe rivolgersi alla Corte costituzionale per sbloccare il processo, fermo in assenza degli imputati. L’Italia, come sabato ha ricordato per l’ennesima volta l’amministratore delegato dell’Eni Claudio Descalzi, ha bisogno della sponda cairota per muoversi, scaldarsi, produrre. Ma non di solo gas vivono gli italiani. O almeno non dovrebbero, lascia intendere in questa intervista con La Stampa l’ex presidente della Camera Roberto Fico.
Descalzi ha spiegato che l’Egitto è un Paese in cui “se dai, ricevi”. L’Italia ha “dato” l’impunità ai torturatori di Regeni per “ricevere” gas?
«Ho letto delle parole pronunciate dall’amministratore delegato di Eni alla convention di Forza Italia. Parole pesanti, che credo sia giusto vengano chiarite. È inaccettabile anche solo pensare che qualcuno possa aver garantito l’impunità agli uomini che hanno rapito, torturato e ucciso Giulio Regeni. Perché la sua vicenda è una vicenda che riguarda tutti noi. Ne va dell’orgoglio della nostra patria. Quelle parole vanno contro ogni onor di patria».
Era il 2016 ed è il 2023: crede ci sia ancora un margine per avere verità e giustizia o l’Egitto è diventato nel frattempo un attore geopolitico troppo importante perché processi il proprio regime?
«Il margine c’è, soprattutto grazie al lavoro incredibile dei nostri inquirenti e dei nostri magistrati, che nonostante le enormi difficoltà e una collaborazione praticamente inesistente da parte delle autorità egiziane hanno individuato i responsabili della morte di Giulio Regeni. L’Egitto ha messo in piedi depistaggi e ha protetto le persone appartenenti alle proprie forze di sicurezza. L’Italia deve avere la forza ma soprattutto la dignità di pretendere giustizia per l’omicidio di un suo giovane ricercatore».
Durante tutti questi anni lei, da Presidente della Camera, è stato l’unico a compiere un gesto concreto sospendendo i rapporti con il Parlamento egiziano. Cosa avrebbe potuto fare e non ha fatto l’Italia, al di là di richiamare temporaneamente l’ambasciatore?
«Quando ho deciso di interrompere i rapporti con il Parlamento egiziano ho avuto l’appoggio unanime di tutti i gruppi parlamentari, è stata una decisione che ha avuto un sostegno trasversale. Ma è stata soprattutto una decisione presa dopo che l’Egitto ha dimostrato la propria volontà di non collaborare. Quando sono stato al Cairo ho visto Al Sisi, aveva fatto delle promesse che non ha mantenuto. A conferma che il regime egiziano mentiva. Ora bisogna guardare avanti e impegnarsi come Paese per pretendere verità e giustizia».
In casi come questi è meglio ritirare l’ambasciatore e sospendere le relazioni diplomatiche o, come sostiene Emma Bonino, restare per esercitare pressione quotidiana?
«Ci sono anche delle posizioni intermedie fra il ritiro dell’ambasciatore e il mantenimento delle relazioni diplomatiche. Ma soprattutto serve autorevolezza nella postura che un Paese assume. E chiarezza rispetto ai paletti che orientano la nostra azione. Il rispetto dei diritti deve essere un perno centrale, per l’Italia e per l’Europa».
Staremmo vivendo un film diverso se l’Ue si fosse unita all’Italia nel chiedere verità e giustizia per Regeni, un italiano ma anche un europeo?
«Il Parlamento europeo ha compiuto delle azioni e ha assunto delle posizioni ma poteva essere fatto di più, e questo è stato sicuramente un problema nella gestione dei rapporti con lo stato egiziano. Se avessimo avuto anche un’Europa più netta e chiara con una politica estera comune, l’Egitto non si sarebbe comportato in questo modo evasivo e omissivo».
Cosa possiamo ancora fare per Patrick Zaki, il cui caso, diverso da quello di Regeni ma ugualmente usato dall’Egitto per orientare i rapporti con l’Italia, rimane sospeso?
«In Egitto esiste un tema grave, quello del rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali. Quindi Regeni da un lato e Zaki dall’altro sono due esempi di un atteggiamento adottato dal regime di Al Sisi. Aggiungo però che sono due casi diversi fra loro, sotto molti aspetti. Spero Zaki possa presto tornare in Italia».
Come si è mosso finora con l’Egitto il governo Meloni?
«Il tema Regeni mi pare assolutamente fuori dall’agenda del governo Meloni. Questo esecutivo ha stretto sempre più i rapporti con il Cairo, e ho sentito due ministri parlare addirittura dell’idea di far esibire il teatro San Carlo sotto le Piramidi. Mi riferisco a Tajani e a Sangiuliano. Su Regeni ho solo sentito insopportabili parole di circostanza, nulla di concreto».
Non è diventato ormai uno standard per i governi italiani, mettere subito sul tavolo egiziano il caso Regeni per passare poi serenamente ad altro?
«Questo governo non mi pare abbia fatto nulla. Spero però di essere smentito. Me lo auguro con tutto il cuore. Avere verità e giustizia per Giulio Regeni significa restituire dignità al nostro Paese».
Interrompere i rapporti con i dittatori è obiettivamente complicato. Qual è la strada equilibrata da percorrere per bilanciare realpolitik e diritti umani?
«Serve parlare con tutti ma mettere dei paletti nei confronti di questi dittatori. Non possiamo voltarci dall’altra parta davanti a realtà drammatiche. L’Italia e l’Europa devono avere la forza di pretendere il rispetto totale dei diritti umani e delle libertà, prima di far affari con certi Paesi». —