Giandomenico Crapis

La sanità pubblica è a un passo dalla catastrofe, ma questo non sembra interessare chi ci governa, che piuttosto fa di tutto per consegnarci quanto prima al modello americano, dove la salute è una merce come le altre: chi ha i soldi se la compra, chi non ce li ha si arrangi. Allora l’opposizione impugni la bandiera della difesa del Servizio sanitario, che dal ’78 è stato un modello per l’Occidente. Fino agli anni 90. Poi qualcosa si è inceppato con la sbornia neoliberista: tra tagli, amputazioni, commissariamenti, riforme sbagliate come quella del titolo V, che regalando la sanità alle regioni ne ha accelerato la fine, il sistema pubblico è entrato in una crisi dalla quale non è più uscito. Inutile ripetere la litania degli infermieri carenti, del personale medico al lumicino, dei Pronto soccorso al collasso, dei medici di famiglia che non ci sono, dei cittadini che restano senza assistenza di base. Inutile ripetere che quanto stanziato da questo governo per la sanità, 2 miliardi, una spesa ridicola nelle condizioni in cui siamo, finirà quasi tutto negli stipendi. Inutile dire che la riforma fiscale che Meloni e compagni hanno deciso di varare diminuendo le entrate per lo Stato non farà che peggiorare le cose. Infatti i medici sono sul piede di guerra, gli Ordini invocano mobilitazioni dei cittadini per salvare la sanità pubblica, quelli impegnati in pronto soccorso dicono che degli aumenti non se ne fanno nulla se devono lavorare come forsennati in turni massacranti. Dopo la pandemia pensavamo che la lezione si fosse capita. Invece no. Il cane si morde la coda: meno le strutture pubbliche rispondono alle esigenze dei pazienti, più chi può si rivolge ai privati, più la soluzione appare quella di dilatare la sanità privata con convenzioni e accordi, ma più soldi si danno ai privati meno ce ne sono per il pubblico, e ricomincia il ciclo vizioso. Ecco il punto: la difesa del Servizio sanitario nazionale è una battaglia decisiva per il futuro del Paese, che le forze del campo progressista debbono fare loro da subito senza tentennamenti, sia perché è giusto ed è morale farla, sia perché su questo tema possono davvero raccogliere nuovi consensi. Un vecchio dirigente del Pci emiliano, Ugo Mazza, mi diceva che nel momento in cui la fabbrica non c’è più e la classe operaia non ha la funzione aggregatrice di un tempo, la lotta per una sanità pubblica può essere un asset fondamentale per la sinistra, perché è sul bisogno di salute che oggi si possono davvero mobilitare trasversalmente milioni di cittadini ed è su questo terreno che ogni giorno le persone vivono ingiustizie, disservizi, vessazioni. Più che con le lotte per il lavoro, più che con quelle per i diritti civili, pur sacrosante. Sono d’accordo: mettiamo il diritto alla salute davanti a tutti gli altri. Schlein e Conte assumano al più presto questo tema come prioritario, alzino il livello dello scontro con il governo, chiamino i cittadini alla lotta, facciano di tutto per capovolgere le politiche tenute finora. Alcune cose si possono fare subito. Ad esempio ripristinare la norma che imponeva ai medici del SSN il rapporto esclusivo pena l’avanzamento di carriera: essa aveva permesso di recuperare molti ospedalieri al tempo pieno, utili allo smaltimento delle code per gli esami. Sbloccare l’assurdo numero chiuso a Medicina, che non ha senso di fronte a una crisi del genere, una strozzatura odiosa a garanzia delle corporazioni; poi tra qualche anno si vedrà. Garantire, infine, come prima, ai neolaureati abilitati la partecipazione ai concorsi anche se non sono specialisti: con questa bizzarra regola infatti vanno deserti i concorsi per reclutare medici laddove mancano (da qui i medici cubani in Calabria o gli argentini in Sicilia). Forse siamo ancora in tempo a salvare il SSN.