L’INTERVISTA

Personale che scarseggia, dominio della tecnica sulla pratica clinica e approccio economicistico alla sanità. Professor Gilberto Corbellini, dall’alto della sua cattedra di storia della medicina alla Sapienza di Roma, in tutto questo vede il pericolo di una medicina sempre più disumanizzata?
«Grazie alla tecnologia oggi il medico ha maggiori possibilità di fare buone diagnosi e curare al meglio, com’è nelle aspettative del paziente. Però è anche vero che quando non c’erano tac e risonanze il medico passava molto più tempo a parlare con il paziente. E la disumanizzazione di cui parliamo dipende dalla carenza di comunicazione. Ma se ci sono poche risorse economiche e di personale, quest’ultimo lavorando sotto stress finisce per chiudersi in sé stesso per salvaguardare la propria integrità psicologica. Mentre dovremmo iniziare a investire in comunicazione, come hanno fatto negli Usa e in Gran Bretagna».
In quale modo?
«A metà degli anni ’90 hanno capito che il principale fattore di insoddisfazione per i trattamenti era l’assenza di dialogo e questo portava alle denunce legali, che a loro volta generano la medicina difensiva, che non fa fare quel che serve se è a rischio. Così i più importanti centri sanitari hanno iniziato ad assumere medici che oltre ad essere bravi sapessero anche comunicare. In Gran Bretagna si sono persino affidati all’intelligenza artificiale».
Ovvero?
«Hanno creato delle piattaforme web in grado di gestire i disturbi dell’umore. Ti registri e il tuo interlocutore virtuale inizia a farti delle domande per sapere qual è il tuo problema. Raccoglie una serie di informazioni che poi gestisce sulla base della psicoterapia cognitivo-comportamentale, l’unica efficace nel gestire queste problematiche. Durante il lockdown ho fatto anche io ricorso a una di queste geniali piattaforme, “Woebot”. Pensi che ogni tanto mi richiama per sapere come sto».
Ma l’empatia tra medico in carne e ossa e il suo paziente quanto può incidere su diagnosi e cura?
«Molto, perché il primo farmaco è il medico. Ma non parlerei di empatia perché non posso entrare nella testa delle persone. Piuttosto, come diceva già Galeno nell’antica Roma, direi che si tratta di instaurare un rapporto di simpatia. Nel senso di comprendere la condizione in cui si trova l’altro. Molti studi dimostrano che quando c’è una buona relazione migliora l’aderenza alle terapie e la stessa condizione del malato per una sorta di effetto placebo. Il rapporto fiduciario è indispensabile soprattutto con gli anziani, ma se hai poco personale te lo scordi di poter dedicare mezz’ora a una visita, come sarebbe necessario».
In che misura il bornout che colpisce il personale sanitario finisce per alterare la relazione con il paziente?
«Tantissimo. Ci sono studi che mostrano come la condizione di bornout e di stress portino a trattare i pazienti come oggetti, pratiche da sbrigare. È un fenomeno ampiamente studiato e conosciuto come “disimpegno morale”».
Non è che anche l’iper-specializzazione medica ha finito per far perdere di vista l’integrità del paziente come persona oltre che come malato?
«Non credo, perché l’iper-specializzazione nasce dall’aspettativa degli stessi pazienti, che esigono trattamenti sempre più efficaci e mirati. Ma questo non deve far dimenticare l’importanza del dialogo».
La tecnologia può far solo bene alla medicina o se male impiegata rischia di disumanizzarla?
«La tecnologia non può essere umana ma algoritmi e intelligenza artificiale ridurranno sempre di più l’errore medico e come ho già detto sono già persino in grado di aprire un dialogo con il paziente. Come tutte le cose, dipende da come la si usa».
E dei medici che usano Whatsapp per parlare con i propri assistiti cosa pensa?
«Se come spesso accade hanno poco tempo è ovvio che ne facciano uso e non è un male. Purché questo non finisca per sostituire poi del tutto il dialogo umano diretto».
Il doppio lavoro dei medici negli ospedali non crea una forma di discriminazione sociale tra chi paga e ha ascolto e chi no?
«Sì, ma se non migliori le condizioni economiche e di lavoro dei medici non puoi andare poi a dir loro adesso ti levo anche l’opportunità di fare la libera professione. In passato era considerato un privilegio fare il medico. Oggi il 60-70% dichiara che non lo farebbe più».
Nella lettera inviata al nostro giornale l’ex primario torinese, Bruno Macchioni, invita i medici che non vengono messi nella condizione di fare bene il proprio lavoro a dimettersi. Condivide?
«Capisco l’amarezza di un ex primario che ha anche aspettativa di cura alta. Ma non bisogna enfatizzare gli episodi negativi. Perché nonostante le pessime condizioni di lavoro la stragrande maggioranza dei nostri sanitari fa tutto il possibile e lo fa anche con grande umanità». PA. RU. —