LA TESTIMONIANZA
Mi rendo conto che gran parte delle critiche che risulteranno da quest’analisi sono dovute al fatto che ho vissuto tutti gli anni della mia attività lavorativa tra i letti d’ospedale nei panni prima di assistente volontario e poi, via via, fino a quelli di primario.
Fin dall’inizio ho cercato di realizzare ciò che mi è stato insegnato come obiettivo e cioè il benessere fisico e psicologico di chi è ricoverato, ben sapendo che le sue condizioni di morale condizionano in maniera rilevante l’efficienza delle cure sia mediche che chirurgiche. E sapendo che man mano che la posizione in carriera del medico cresce non possono aumentare solo le soddisfazioni ma anche responsabilità e doveri. La rabbia che ho accumulato deriva dalla constatazione che quanto accaduto durante il mio ricovero è un vero tradimento ai criteri di assistenza da parte della classe medica cui ho appartenuto per tanti interessantissimi e sofferti anni. Alle 14 del 29 settembre mi portano al pronto soccorso dell’ospedale di Chieri: tampone Covid (negativo); radiografia che evidenzia frattura al femore; esami di routine necessari per il ricovero e l’intervento; consulto con un gentilissimo ortopedico che mi illustra il tipo di intervento e con una anestesista altrettanto gentile. Trascorro la notte su una barella al pronto soccorso perché non ci sono posti liberi in reparto. La mattina del 30 settembre vengo sistemato nel letto 14 dell’Ortopedia e mi viene comunicato che sarò operato il 1° di ottobre. Il che avviene regolarmente. Mi dicono che al quarto giorno sarò trasferito in un istituto per il recupero funzionale.
Fin qui dunque tutto bene. Ma poi cominciano le dolentissime note. Trascorrono le ore, il personale procede a rimettere in ordine i letti, ma nessuno pensa alla nostra pulizia personale: non possiamo lavarci né viso né denti. Spero si tratti di un inconveniente del giorno; invece no, per tutta la durata della mia degenza mi è stato dato un pezzo di stoffa umido da passarmi sul viso e sulle mani. Troppo lavoro? Così dice il personale che protesta anche per le “inopportune” chiamate dai letti. Sentirsi sporchi è molto deprimente. Per quanto concerne la mia passata esperienza di primario, era sufficiente che io fossi nei reparti prima delle sette di mattina perché tutte le pazienti prima delle otto fossero pulite. Non pretendo ovviamente di consigliare queste levatacce a chi deve organizzare questi servizi ma è indispensabile che si trovino metodi altrettanto efficaci.
Nella stessa giornata mi colpisce un’altra sorpresa: nessuna visita medica. Le infermiere al mattino presto rilevano temperatura, pressione arteriosa e saturazione di ossigeno, ma nessun medico passa tra i letti. O, per lo meno, nel senso che ho visto medici che passano a trovare i loro “clienti” operati, ma solo loro, io non essendo cliente di alcuno non avevo diritto a questa attenzione. Se ciò è scusabile in una clinica privata è assolutamente vergognoso in un ospedale. Personalmente nessun medico è venuto mai a visitarmi. E anche qui non posso che rifarmi al mio passato di medico. Ho sempre ritenuto indispensabile la visita ai letti tutte le mattine alle otto, alla quale ho voluto partecipassero tutti i medici in modo che sapessero le condizioni di tutte le pazienti. La visita giornaliera è indispensabile per verificare se sono necessari esami e per aggiornare le terapie. Aggiungo anche che il degente ha sì bisogno di un medico tecnicamente valido ma anche di un medico “umanamente” valido, che parli con te, ti renda tranquillo.
Altra chicca organizzativa: il servizio di fisioterapia. Alle 11,50 arriva la fisioterapista al mio letto, mi aiuta a indossare pantaloni e pantofole, mi appoggiava a un girello per tre passi, proprio tre, e poi mi fa sedere su una sedia a rotelle dove resto almeno due ore in attesa che due infermieri mi rimettano a letto. Ho chiesto alla fisioterapista le ragioni di questa cosiddetta assistenza specifica. La risposta è che hanno cinque minuti per paziente.
Al quarto giorno dall’intervento mi viene praticato un altro tampone. E poi? Miracolo: vedo per la prima volta un medico. Ma si ferma accanto alla porta solo per dirmi che sono positivo al Covid e quindi per almeno cinque giorni dovrò rimanere lì. Passati cinque giorni ho di nuovo il privilegio di una visita di un medico; anche questa volta non arriva al letto e mi avverte che per altri cinque giorni dovrò rimanere lì perché il tampone è ancora positivo. Dopo altri cinque giorni, il medico della porta mi avverte che sono ancora positivo e quindi devo ecc… questa volta lo costringo ad accostarsi al letto (la prima in quattordici giorni); mi scopre e dice che deve togliermi i punti. Poi, guardando finalmente la cartella, aggiunge che non può chiuderla senza neppure un esame del sangue. Così facendo rimedia parzialmente ai gravissimi errori pregressi. L’esame rivela una notevolissima anemia con grave carenza di ferro che giustifica in parte la mia prostrazione fisica. Non era forse elementare che lo scoprissero prima e che cominciassero a curarla durante quei lunghissimi giorni di inerzia?
Trascorsi quattro mesi da quando ho lasciato il letto 14 si sono depositate le scorie di quel vero e proprio livore che ho accumulato, ma non l’amarezza di sentirmi, come medico, collega di chi organizza quel tipo di “assistenza”. Di chi è la colpa? Dell’amministrazione, dei medici? Molto spesso l’amministrazione non aiuta e va contrastata con decisione. Tuttavia per quanti torti possa avere, la responsabilità rimane per forza dei medici: se non vengono messi nella condizione di poter svolgere i compiti che loro competono secondo coscienza, rimane sempre un modo per non essere responsabili delle enormi manchevolezze: le dimissioni. E tra i doveri che competono ai medici occorre ricordare che se per tutte le persone è importante lo stato d’animo, il morale, lo è assai di più per chi è malato e degente. —
*ex primario di Ostetricia all’ospedale di Venaria

