LE STORIE
ROMA
«Lavoro a gettone in un ospedale veneto ma non ho la specializzazione. In pronto soccorso faccio soprattutto codici bianchi e verdi, ma quando mi capita un caso più difficile mi rendo conto che avere una specializzazione sarebbe stato utile». Così quando si trova in difficoltà Valentina, il nome è di fantasia perché lei come tanti preferisce restare anonima, chiede aiuto ai colleghi, «anche se così so di rallentare la catena assistenziale». Come dire che alla fine, in questa giungla dei medici in affitto, a perdersi è la tutela dei pazienti. «La specialità in realtà l’avevo anche iniziata – racconta – ma poi ho lasciato perdere come tanti, per via dei turni stressanti, fino a 80 ore a settimana». Svelando la realtà di giovani medici più che in formazione in catena di montaggio, per tappare i buchi di una sanità sempre più a corto di medici e infermieri.
Stefania invece nel pronto soccorso di un ospedale pubblico da dipendente ci ha lavorato per 12 anni. Poi la fuga. «Finivo distrutta ogni giorno e la mia vita privata era ormai annullata. Durante la pandemia non sono potuta tornare a casa dai miei famigliari per due anni». Da qui la scelta di lavorare come privato. «Ho lavorato già per due cooperative che mi hanno reclutato chiedendomi il curriculum, ma senza farmi un colloquio. Solitamente sono loro a cercarti attraverso i social: chi le gestisce non sono medici, ma persone che noi non conosciamo». Ora Stefania non fa più di 120 ore al mese rispetto alle 160 che si sobbarcava nel pubblico, dove è tornata prestando servizio nello stesso pronto soccorso ma da gettonista. «Guadagno 100 euro l’ora e i nostri turni non li regola nessuno. Io mantengo una mia etica e più di tanto non ne faccio, ma c’è chi accorpa 4-5 notti di fila, che oltre ad essere pericoloso non garantisce nemmeno la qualità delle cure», ammette.
Anche il dottor Riccardo Stracka è quello che potrebbe definirsi un «medico a gettone». Nel senso che non ha mai lavorato come dipendente in ospedale ma sempre a chiamata. Non un giovane neolaureato senza specializzazione ma un professionista esperto, specializzato 18 anni fa in medicina d’emergenza e urgenza con 70 e lode, cui hanno fatto seguito una sfilza di qualifiche professionali. A quelli come lui gli ospedali spalancherebbero le porte in un baleno. Ma come tanti suoi colleghi preferisce mantenere un piede fuori. «In questo modo ho avuto la possibilità di variare il mio lavoro. Ad esempio organizzo corsi di primo soccorso in aziende, faccio l’istruttore per l’uso del defibrillatore. E poi sinceramente a scoraggiare ci sono anche i turni massacranti imposti oramai in quasi tutti gli ospedali. Però dal pronto soccorso di Monza sono andato via a malincuore, quando ho capito che quell’attività, pur rappresentando la porta d’ingresso di un ospedale, non era considerata una priorità. Per il semplice fatto che non porta soldi come ne portano invece i ricoveri ordinari».
Roberto Malesani è un neurologo. A dicembre del 2018 si è licenziato dall’ospedale di Castelfranco e ora si divide tra ambulatori di Castelfranco, Montebelluna e Feltre, in Veneto, come privato. «Lavorando in ambulatorio a Feltre dal lunedì al sabato per cinque ore al giorno, contro le 12 in corsia, posso arrivare a 7 mila euro netti al mese invece dei 3 mila che guadagnavo prima», confida. «Oggi – continua – è diventata una catena di montaggio: contano solo i numeri, il rapporto col paziente è saltato di fronte a ritmi insostenibili e a direttori generali che ti dicono anche quanto deve durare una visita». Una sanità sempre più guidata dai soldi e meno a dimensione d’uomo. Pa. Ru. —
