IL CASO
Paolo Russo
roma
L’allarme delle regioni è bipartisan: continuando di questo passo, dicono al governo, tra sottofinanziamento, carenza di personale, inflazione e caro energia la sanità è a rischio crac, con conseguenze che le stesse Regioni definiscono «catastrofiche». Il grido d’allarme viene dal coordinatore degli assessori regionali alla Sanità, l’emiliano Raffaele Donini, che a nome di tutte le Regioni ha inviato una lettera al ministro della Salute, Orazio Schillaci e al titolare dell’Economia, Giancarlo Giorgetti. Un appello condiviso, perché l’80% dei bilanci regionali è assorbito dalla Sanità e su questa si gioca una bella fetta del consenso elettorale.
«La sostenibilità economico-finanziaria dei bilanci sanitari è fortemente compromessa dall’insufficiente livello di finanziamento del Servizio Sanitario Nazionale, dal mancato finanziamento di una quota rilevante delle spese sostenute per il contrasto alla pandemia da Covid-19 e per la campagna vaccinale», scrive Donini. I conti le Regioni al governo li avevano già fatti: tra maggiori spese sostenute per il Covid e quota non finanziata del caro bollette in Asl e ospedali, per l’anno passato i governatori lamentano un ammanco di 3,8 miliardi di euro. Che nulla hanno a che vedere con i 2,2 miliardi in più di finanziamento che Schillaci è riuscito ad ottenere per il 2023. Soldi che non potranno essere utilizzati per coprire il buco pregresso, dato che non basteranno nemmeno a fronteggiare le tante emergenze sanitarie dell’Èra post-pandemica, a cominciare dallo smaltimento delle liste d’attesa, passando per la necessità di ripopolare di medici e infermieri non solo le corsie degli ospedali, ma anche le nuove Case e Ospedali di comunità per il potenziamento dell’assistenza territoriale, per la quale il Pnrr stanzia ben 7 miliardi di euro. Soldi vincolati però a tirar su muri e che non possono essere impiegati per assumere i professionisti sanitari che dentro quelle mura dovrebbero operare.
«Questa situazione – scrivono le Regioni al governo – determinerà conseguenze catastrofiche per la Sanità pubblica, che ha invece urgenza di rivedere i modelli organizzativi per rafforzare l’assistenza territoriale – anzitutto affrontando il grave problema della carenza di medicina generale – rinnovare e rendere più efficienti e sicure le strutture sanitarie, ospedaliere e territoriali, dare una soluzione al collasso delle strutture di emergenza, ammodernare il parco tecnologico e digitale». Un elenco di problematiche che ricalca quelle scandagliate nelle puntate dell’inchiesta de La Stampa su «La salute tradita».
«Auspichiamo che sussistano le condizioni per un percorso di leale collaborazione e di costante confronto istituzionale», è l’invito a riprendere il confronto che nella lettera le Regioni rivolgono all’Esecutivo. Ma sulle ricette le strade tra gli schieramenti tornano a dividersi. Per sciogliere il nodo della debolezza del nostro sistema di assistenza territoriale l’opposizione difende la riforma già approvata, perché le case di comunità dovrebbero garantire l’assistenza 7 giorni su 7 nelle ore diurne, facendo lavorare in team medici di famiglia, specialisti e infermieri. Nella maggioranza, invece, la formula non piace, così come non convince i medici di famiglia, che in queste strutture dovrebbero passare molte più ore di quante oggi non ne trascorrano nei loro studi. E si sa che soprattutto nella profonda provincia italiana un po’ di voti li hanno sempre spostati. Ma piacciano o meno, le case e gli ospedali di comunità hanno bisogno di personale. Dove andarlo a pescare e con quali soldi, è un rebus.
Non convince i medici l’idea del governo di abrogare il numero chiuso nelle facoltà di medicina. «Così creeremo solo un imbuto lavorativo nei prossimi anni, quando già entreranno sul mercato i giovani formati grazie all’aumento delle borse di specializzazione», spiega Pierino Di Silverio, segretario nazionale del sindacato Anaao. Che chiede invece di gratificare il lavoro medico per superare la disaffezione dei giovani per quelle specialità, come l’emergenza e urgenza, dove c’è meno mercato privato. —

