
Franco Monaco
Figurarsi se non sono sensibile al tema delle culture politiche. Sono cresciuto alla scuola di taluni padri nobili del cattolicesimo democratico, ho speso una parte significativa della mia vita associativa e politica occupandomi esattamente di esso, ho avuto qualche parte nella fondazione dell’Ulivo, ho confidato che il Pd potesse rappresentarne lo sviluppo e il compimento (le cose sono andate diversamente).
Di più: ho sempre diffidato della retorica del Pd quale partito orgogliosamente “post-ideologico”. Non è vero che le ideologie sono estinte. Morte alcune, altre ne sono subentrate. Spesso dissimulate, talvolta praticate senza esserne consapevoli. E tuttavia nutro una qualche diffidenza verso chi oggi, dentro il confronto congressuale in atto nel Pd, si impanca a custode delle radici e delle culture politiche confluite nella Carta dei valori del partito stilata nel 2007.
Per più ragioni: sia perché, avendo partecipato ai lavori del comitato che la redasse, ne ricordo i limiti, quelli di un documento politico da non sacralizzare, pensato al mero fine pratico di favorire la nascita del Pd ma rimesso nel cassetto il giorno dopo; sia perché esso è figlio di un tempo cronologicamente e, più ancora, culturalmente remoto. Ma soprattutto perché mi preoccupa che l’enfasi sulle radici sottintenda l’indisponibilità pratica a emendarsi e a cambiare.
Al netto della retorica evocazione delle culture politiche, il problema cruciale per il Pd è quello di una concreta discontinuità di visione, di programmi, di gruppo dirigente. Da tutti si conviene che in gioco sarebbe non meno che l’identità del Pd, una sua rifondazione o addirittura un nuovo Pd. Dunque il rischio maggiore è che, dal congresso, sortisca l’esatto opposto, ovvero l’identità del partito che già conosciamo e che lo ha condotto – di nuovo, a parole, tutti ne convengono – alla condizione critica presente. Ove in discussione sarebbe la sua stessa sorte. Dunque, il rischio di un congresso che si risolva in una operazione gattopardesca.
Del resto, consideriamo un altro assunto critico sul quale universalmente si converge: la patologia del correntismo, la convinzione che in quelle cordate si concentra il potere effettivo, che quella sia la “costituzione materiale” del Pd. Un partito che, più di ogni altro, conosce un sovraffollamento di ceto politico professionale. Una condizione strutturale e sovrastrutturale (intesa come mentalità) che palesemente ha concorso a farne quel “partito ministeriale”, schiacciato sull’establishment, distante da chi non ce la fa, incline a interpretare la “responsabilità” come “autocondanna a governare” che ci si infligge volentieri.
In breve, si può convenire sulla obiezione in punto di principio e di metodo avanzata da due vecchie correnti, taluni ex Ppi ed ex Ds di rito veltroniano – ovvero che gli organi del partito in scadenza non abbiano titolo e legittimazione per cambiare in profondità la Carta dei valori –, ma si deve nel contempo smascherare chi fa leva su tale obiezione non peregrina per non cambiare nulla, per fare come se nulla fosse successo, per reiterare una identità, quella presente, che non mi pare abbia convinto a giudicare dal responso delle urne.
