Niccolò Carratelli
Roma
«E se portava rancore che diceva? », si domanda ironico un cronista al termine della conferenza stampa di Giuseppe Conte, nel quartier generale di via di Campo Marzio. Il presidente del Movimento 5 stelle ha appena lanciato la sua proposta per le elezioni regionali nel Lazio, l’appello «a tutte le forze, non solo politiche, ma anche della società civile», le «condizioni minime irrinunciabili» per costruire un’alleanza. Ma è tutto tranne che un’apertura al dialogo. O come dico io, oppure ognuno per la sua strada, è in sostanza il messaggio inviato a Enrico Letta e al Partito democratico. Una porta chiusa, visto che il primo punto citato da Conte è il no «alla costruzione di un inceneritore, come quello progettato per Roma». L’origine di tutti gli scontri, la causa della crisi del governo Draghi e della conseguente rottura tra M5s e Pd: «Noi non abbiamo cambiato idea rispetto a quello che c’era scritto nel programma del secondo governo Conte – spiega l’ex premier – Loro sono andati avanti inserendo senza alcun preavviso una norma del decreto Aiuti, anche a rischio di spaccare la maggioranza». È solo l’inizio di un lungo sfogo contro gli ex alleati. Per sottolineare, una volta di più, perché «con questi vertici del Pd abbiamo difficoltà a sederci allo stesso tavolo». Perché «quando abbiamo detto no al riarmo hanno puntato il dito contro di noi, ci hanno accomunato a Salvini e Meloni per l’escalation militare». E, dopo lo strappo di Luigi Di Maio, «quando i cosiddetti scissionisti andavano in tv ad accusarci delle peggiori nefandezze, il Pd li ha candidati tutti nelle proprie liste o in coalizione». Ora Conte si sente più forte, ma non ha dimenticato «quando i sondaggi in campagna elettorale ci davano al 6-7% e il Pd ne ha approfittato per darci il colpo di grazia, metterci alla gogna ed emarginarci come degli appestati». Ma guai a dire che se l’è legata al dito: «Non portiamo rancore – assicura – lo voglio dire a tutto il mondo del Pd che in questi giorni si sta sbracciando chiedendoci un atto di generosità: non esiste se significa scarsa chiarezza sui programmi, annacquamento dei nostri valori e principi». Nessun indizio, invece, sul possibile candidato presidente della Regione: «Siamo disponibili a individuare una figura che possa essere degno interprete di questo programma e che possa offrirci le massime garanzie di realizzarlo con coraggio», si limita a dire Conte. Innanzitutto, archiviando il termovalorizzatore (questa la definizione corretta) a Roma, anche se proprio ieri il sindaco, Roberto Gualtieri, ha confermato l’intenzione di realizzarlo, perché «la città ne ha bisogno». E Bruno Astorre, senatore e segretario Pd nel Lazio, ricorda a Conte che «non è nel programma della Regione e invadere altri campi, come quello del Campidoglio (la legge conferisce i poteri speciali al sindaco) è come usare armi improprie: con i diktat non si va avanti». Tra l’altro, si domanda perché, «se con Raggi andava bene mandare i rifiuti nelle altre regioni, ora sarebbe proibito realizzare un termovalorizzatore per Roma? Tutti ecologisti col termovalorizzatore degli altri».
Ormai in casa Pd hanno capito che alle regionali si ripeterà lo stesso copione delle politiche. «Conte non vuole cercare convergenze, si appresta a una corsa solitaria – dicono dal Nazareno – quindi preferisce che termini l’esperienza lunga e positiva di governo progressista del Lazio e vinca la destra». Carlo Calenda coglie la palla al balzo e rilancia via Twitter l’invito ai dem: «Possiamo desumere che continuare a perdere tempo con il M5è è inutile, almeno nel Lazio? – chiede il leader del Terzo polo – Visto che c’è una persona del Pd di valore già in campo (l’assessore uscente alla Sanità Alessio D’Amato, ndr), possiamo chiudere?». —