
Pubblichiamo la seconda puntata del nostro racconto sulla scissione di Luigi Di Maio, che il 21 giugno ha lasciato il M5S insieme a una sessantina di parlamentari.
Lorenzo Giarelli
A metà giugno la scissione è inevitabile. Il 12 ci sono le amministrative e i 5S sono in difficoltà ovunque. Il 16, Di Maio alza la voce: “Non siamo mai andati così male. C’è un auto-referenzialità che andrebbe superata. Lo dico ai cronisti perché non esiste un posto dove poterlo dire”. Ma il vero tema interno è quello del limite dei 2 mandati. Il 14 giugno, due giorni prima dell’intemerata di Di Maio, Conte “sposa” la linea di Grillo: “La politica non può diventare un mestiere”. Non ci saranno deroghe, con queste regole Di Maio è fuori.
Il casus belli sulla rottura lo offre il dibattito sulla guerra. Il 21 giugno è in programma un intervento di Draghi in Parlamento. Ci sono lunghissime trattative per una risoluzione di maggioranza: i 5 Stelle vorrebbero un limite all’invio perpetuo di armi e più trasparenza sul materiale spedito a Kiev. Per Di Maio è un’eresia: “Non credo sia opportuno assumere decisioni che disallineano l’Italia dalla Nato e dalla Ue. Non possiamo stare al governo e poi un giorno sì e l’altro no attaccare lo stesso governo”. Conte reagisce: “Dire che vogliamo l’Italia fuori dalla Nato o su posizioni anti-atlantiste significa dire stupidaggini”.
E infatti alla fine il M5S vota come il resto della maggioranza. Ma è tardi: la scissione è pronta. Di Maio è ormai coccolato dall’establishment e alla rottura guarda con speranza anche il Pd, il più draghiano dei partiti. I giornali hanno scelto da che parte stare. Il 18 giugno Marcello Sorgi (La Stampa) definisce “pura follia” la strategia di Conte, “l’avvocato travolto dai 5 Stelle”. Repubblica sancisce “la fine dell’anti-politica”: “La crisi del populismo è prima di tutto crisi della mancanza di linea politica da parte dei suoi primi interpreti”. La molla è una bozza della risoluzione che esce in agenzia il 18 giugno e che chiede di fermare l’invio di armi a Kiev. Porta la firma di alcuni senatori M5S, ma Conte chiarisce subito che si lavora a un’intesa di maggioranza diversa da questa. Di Maio non ci sente: “Così è a rischio la sicurezza dell’Italia”.
E arriviamo al 21 giugno, quando neanche il voto allineato al resto della maggioranza del M5S convince il ministro a fermarsi. A sera, Di Maio annuncia la scissione in una euforica conferenza stampa a cui accorrono decine di parlamentari convinti che quel che resta del Movimento sia destinato all’estinzione. Vincenzo Spadafora, uno dei più ascoltati da Di Maio, delinea il futuro con precisione profetica: “Il Pd deve porsi il problema dell’interlocuzione con Conte. Era ritenuto affidabile ma mi pare che qualche problema ci sia”. Letta ammicca: “Un po’ mi aspettavo la scissione, era un po’ che l’aria era tesa, diciamo che non mi ha colto di sorpresa”. Il 24 giugno la capogruppo dem Debora Serracchiani anticipa quel che sarebbe successo: “Se il M5S dovesse ritirare il sostegno al governo è chiaro che si creerebbe un solco tra di noi”. Parole al miele invece per Di Maio: “Del centro si parla spesso, ma questa volta siamo di fronte a una evoluzione che sta cambiando l’intera società”. Viste le continue rassicurazioni, nei giorni successivi si convincono altri 5S, come l’ex ministra Lucia Azzolina.
La crisi e le elezioni. Insieme per il futuro è pensato per essere un salvagente per Draghi, ma ottiene l’effetto contrario. In campagna elettorale Conte racconterà più volte di come il Pd e Draghi, se avessero voluto, avrebbero potuto fermare Di Maio in ogni momento: “È stato consentito al ministro degli Esteri di distogliere del tempo dal suo compito istituzionale per formare un partito personale e attaccare il partito di maggioranza con accuse gravissime. Perché Draghi non lo ha chiamato dicendogli ‘non devi fare fibrillare la maggioranza’? Come mai il Pd non gli ha detto ‘datti una calmata’?”.
Conte sottintende la risposta: la scissione avrebbe dovuto fare comodo sia ai dem che a Palazzo Chigi. Non solo: quando si avvicina la crisi di governo (il 6 luglio Conte presenta i suoi “9 punti” a Draghi), i dem si convincono che ci sia margine per un’altra scissione. Davide Crippa e il ministro Federico D’Incà mostrano insofferenza e dialogano coi dem. Possono essere i nomi attorno a cui costruire un altro gruppo parlamentare che dia a Draghi l’alibi per continuare a governare anche senza i 5 Stelle. Qualcosa però non va come previsto. Il 20 luglio Draghi va in Senato e nel suo intervento prende a schiaffi i 5S, facendo pure infuriare la Lega. Il Movimento non vota la fiducia e così fanno anche Salvini e FI: il premier si dimette. L’operazione Insieme per il futuro rimane nel guado, mentre la seconda scissione muove pochissimi parlamentari: Letta fa quello che aveva promesso, scaricando i 5S nonostante invochi una “coalizione larga” contro le destre, ma il progetto di Di Maio è ingolfato. Dovrebbero esserci i sindaci ma si aggrega solo è Tabacci (l’unico che otterrà il seggio).
Il Pd si dissangua offrendo collegi ai dimaiani, arriva a proporre al ministro un posto blindato nella propria lista, “ripesca” Crippa in un collegio (solo D’Incà, tra i big, resta senza candidatura). Alle urne, Impegno Civico raggiunge un misero 0,6 per cento: impietoso scoglio contro cui si infrangono mesi di colloqui, trattative, speranze e abbagli collettivi.
