
(DI LORENZO GIARELLI – Il Fatto Quotidiano) – “Bisogna scegliere da che parte della storia stare”. È il 21 giugno 2022 quando Luigi Di Maio utilizza toni da sbarco sulla Luna per annunciare l’addio al Movimento 5 Stelle. In nome della “fedeltà all’area euro-atlantica”, secondo il ministro messa in pericolo da Giuseppe Conte, Di Maio fonda Insieme per il futuro: può contare su decine di parlamentari, un ministro, un vice-ministro e ben quattro sottosegretari; eppure avrà vita brevissima, perché un mese più tardi confluirà in Impegno Civico insieme al Centro Democratico di Bruno Tabacci, fallendo l’ingresso nel nuovo Parlamento. Ed è proprio il disastro alle urne che oggi consente di guardare indietro con il distacco necessario per una lettura più completa dell’operazione. Perché la scissione è un’idea che parte da molto lontano ha goduto di sponde decisive in ambienti esterni al M5S, a cominciare dal Pd. E riavvolgere il nastro (in due puntate) spiega anche molto degli attuali rapporti tra i dem e i 5S.
I primi abboccamenti. A gennaio 2022 si vota per eleggere il successore di Sergio Mattarella, ma le manovre dei partiti iniziano molto prima perché sanno che la vera questione non è tanto mandare Mario Draghi al Colle (a dicembre il premier renderà ufficiosa la propria candidatura, dicendo il massimo che si può dire senza arrivare alla sgrammaticatura istituzionale: “Sono un nonno a disposizione dell’Italia”) quanto trovare un successore a Palazzo Chigi che vada bene per tutti. È allora che Di Maio si sente in partita e comincia a guardarsi intorno. Si è reso protagonista di una svolta rassicurante (su Repubblica battezza un nuovo M5S “liberale e moderato”, sul Foglio chiede scusa all’ex sindaco dem Simone Uggetti per la “gogna giudiziaria” di cui è stato vittima) e i primi mesi alla Farnesina lo hanno accreditato come perfetto interlocutore del Pd, del centro e persino di un’area del centrodestra. La scissione è lontana ma Di Maio si muove, sognando addirittura la premiership. Fonti di peso del Movimento raccontano che già tra novembre e dicembre ai vertici nazionali arrivano ripetute segnalazioni da parte di eletti contattati da persone vicine al ministro degli Esteri. Si sondano gli umori, tanto tra i parlamentari quanto tra i consiglieri locali, a partire dalla Campania, da cui provengono molti dei fedelissimi di Di Maio (come Dario De Falco, con lui alla Farnesina, o la consigliera regionale Valeria Ciarambino).
Il Quirinale. La settimana del voto per il Colle è già uno spartiacque. Dopo i primi tentativi disastrosi (la destra brucia un paio di candidati al giorno), venerdì 28 gennaio Conte tesse la tela per portare Elisabetta Belloni al Colle. Ha il sì di Giorgia Meloni e di Enrico Letta, alla fine si convince anche Matteo Salvini. Letta però intuisce che molti nel Pd potrebbero non seguirlo e allora si sfila, anche perché nel frattempo Di Maio blocca il nome della Belloni tra i suoi. Conte e Salvini provano a forzare la mano in tv parlando di una “presidente donna”, Beppe Grillo cita la Belloni su Twitter. Ci pensa Di Maio a far naufragare la candidatura: “Trovo indecoroso che sia stato buttato in pasto al dibattito pubblico un alto profilo come quello di Elisabetta Belloni senza un accordo condiviso”.
Quando, il giorno dopo, il Parlamento ri-elegge Mattarella, il Foglio pizzica Di Maio a colloquio con la dem Beatrice Lorenzin: “Quei furboni (Salvini e Conte, ndr) giocavano sul fatto che non ne sapessi niente, ma appena abbiamo capito che aria tirava ci siamo sentiti con Guerini e abbiamo bloccato tutto”. Lorenzin smentisce, il Foglio conferma tutto.
Conte sa di avere un enorme problema in casa. Sul Quirinale, Di Maio ha giocato una partita a parte. E infatti il sabato sera il ministro si presenta davanti alle telecamere circondato da una manciata di parlamentari 5S a lui vicini e accusa l’ex premier: “Alcune leadership hanno fallito. Nel M5S si deve aprire una discussione politica interna”. Conte chiede un “confronto pubblico” aperto “alla comunità degli iscritti”, ma la tensione resta irrisolta per mesi, a parte per le dimissioni di Di Maio dal Comitato di garanzia 5S.
La guerra. L’invasione russa dell’Ucraina offre a Di Maio l’occasione per rompere coi 5 Stelle. Il ministro si fa garante della linea atlantica. Nel concreto, significa armare Kiev e impegnarsi a portare le spese militari al 2 per cento del Pil. Il 2 marzo in Senato e il 18 alla Camera il M5S vota l’invio di armi a Kiev, ma nelle settimane successive avvisa che non può essere l’unica strategia per risolvere il conflitto. Poi Conte dice “no” al riarmo e infatti il governo rivede l’aumento previsto alle spese militari. L’atteggiamento di Di Maio piace a Palazzo Chigi – a Draghi ma pure ai suoi uomini di fiducia Roberto Garofoli e Antonio Funiciello – ai consiglieri politici del Quirinale e al Pd. Per averne un’idea, basta sentire cosa dice il 10 maggio il senatore dem Andrea Marcucci: “Di Maio è molto maturato. Se il Pd deciderà di avere delle autorevoli personalità esterne, lo candiderei”. Molti di quelli che lo seguiranno, oggi raccontano come già in primavera tutti sapessero che la rottura sarebbe stata imminente.
Un nuovo partito servirebbe a isolare il M5S (a partire dai temi della guerra) e a indebolire Conte. Il paracadute per i dimaiani è pronto e si chiama Pd: in caso di scissione, i dem garantirebbero sostegno (e posti) ai fuoriusciti. In più, si pensa che mettere all’angolo i 5 rafforzi il governo, motivo per cui a Palazzo Chigi lasciano che Di Maio porti avanti il logoramento. “Si sono fidati troppo di Letta e Tabacci”, dice una fonte interna a Ic. Nel frattempo Draghi ha un filo diretto con Grillo. Il 29 giugno il sociologo Domenico De Masi riferirà al Fatto alcune conversazioni col fondatore del M5S: “Secondo Grillo, Draghi gli ha chiesto di rimuovere Conte dal M5S, perché inadeguato”. Gli stessi colloqui vengono riferiti da Grillo ai parlamentari: stando al Garante, le richieste di Draghi arrivano nei giorni in cui Conte è più in difficoltà. Nonostante il buon rapporto col premier, Grillo sta con Conte. Ma Di Maio non si ferma.
(1 – continua)
