federico capurso
roma
Per capire quale nome vorrebbe al Quirinale, il Movimento 5 stelle sta imparando a interrogarsi prima su cosa desidera ottenere da questa partita. E in cima alla lista grillina, finora, ci sono sempre due priorità: mantenere saldo l’asse con gli alleati di Pd e Leu e blindare la legislatura fino alla sua scadenza naturale, nel 2023. La prima necessità ha un orizzonte che arriva alle prossime elezioni politiche, mentre la seconda è imminente, legata soprattutto al controllo delle truppe parlamentari terrorizzate dall’idea di tornare al voto.
Intorno a questi due pilastri, si muove ogni ragionamento. Giuseppe Conte mantiene un prudente silenzio, in attesa di confrontarsi ancora con Enrico Letta e Roberto Speranza, così come restano cucite le bocche del suo staff. In avanscoperta vanno invece i vicepresidenti M5S, da Riccardo Ricciardi ad Alessandra Todde e Stefano Gubitosa, che si confrontano quotidianamente con Conte per poi andare in tv e sui giornali ripetendo fino allo sfinimento l’importanza di garantire «stabilità alla legislatura» e «continuità di governo». Due concetti che all’apparenza sembrano traducibili come un invito a Mario Draghi a non muoversi da palazzo Chigi, perché senza di lui come unico collante della maggioranza si concretizzerebbe il rischio di un ritorno alle urne. Eppure, quando si stringe intorno al nome del premier, nessuno di loro pone un veto su di lui. Un big del Movimento, che conosce bene gli umori dei parlamentari così come quelli del leader, lo dice senza girarci troppo intorno: «Nel M5S non c’è nessuna preclusione per Draghi, che rientra senza dubbio tra quelle personalità di alto profilo che possono andare al Colle».
Nessuna preclusione, dunque. Poi, il big torna sullo spartito suonato finora dai suoi colleghi: «C’è anche la consapevolezza e la preoccupazione che una mossa tale comprometterebbe la continuità di governo. C’è il rischio che si rompa l’attuale perimetro di maggioranza. In questo modo, il paese precipiterebbe di nuovo in una condizione di instabilità, in un momento ancora drammatico per il Paese». Ma è qui che i ragionamenti si intrecciano al primo pilastro, quello dell’asse con i Dem. Il Movimento 5 stelle è disposto a tenere aperto uno spiraglio alla corsa di Draghi al Colle, a patto che venga siglato un accordo di ferro con tutti i leader di maggioranza sul successore del premier a palazzo Chigi. La stessa formula, quindi, proposta dal segretario Dem per garantire una possibilità al presidente del Consiglio. D’altronde, viene spiegato, «la continuità di governo non è legata alla continuità di Draghi nel suo ruolo di premier, ma alla stabilità di questa maggioranza». In altre parole, se si trovasse un nome per il dopo-Draghi, tutti gli attuali partiti di maggioranza dovrebbero essere d’accordo e garantire il loro appoggio al governo. Da Leu a Forza Italia, dal Pd alla Lega, nessuno escluso. La suggestione di una maggioranza Ursula, con Silvio Berlusconi dentro e Matteo Salvini di ritorno sui banchi dell’opposizione al fianco di Giorgia Meloni, non sarebbe possibile. «Non potremmo reggere il quarto governo diverso in cinque anni». Il gruppo parlamentare grillino si spaccherebbe e i consensi, a un anno dalle elezioni, rischierebbero di crollare.
Il profilo che piace di più a Pd, M5S e Leu, è quello del ministro dell’Economia Daniele Franco, emblema della continuità con Draghi, che conosce da 30 anni. In buoni rapporti con i Dem più che con i Cinque stelle, ma sufficientemente super partes da poter prendere in mano il timone del governo senza innescare squilibri o gelosie. Un uomo al servizio dello Stato, tanto da poter sopportare – è la speranza di chi lavora a questa ipotesi – il bersagliamento quotidiano di tutti i partiti di maggioranza, già pronti a trasformare i prossimi mesi in una campagna elettorale permanente. Franco dovrebbe resistere almeno fino a settembre, quando i parlamentari avranno ottenuto il diritto alla pensione e potranno quindi abbandonare i loro scranni con minori preoccupazioni per le sorti del Paese. —