GIUSTIZIA – LA FIDUCIA AL DDL

di Luca De Carolis

La guerra al governo molto diverso dal suo l’aveva messa sul tavolo, come arma e forse tentazione: anche di fronte ai deputati, appena martedì scorso. E d’altronde aveva seriamente pensato allo strappo, soprattutto nei giorni in cui meditava di farsi una sua lista, quelli dello scontro con Beppe Grillo. Ma ora Giuseppe Conte deve diventare e soprattutto mostrarsi capo dei Cinquestelle, così in un lunedì romano di nuvole e sguardi che anelano spiagge, l’avvocato ripassa in rassegna le truppe e sente tutti gli ufficiali.

Deve far trangugiare a tutti i deputati a 5Stelle il calice della fiducia a Mario Draghi e alla riforma Cartabia, cioè a quelle norme che fino a qualche giorno fa erano l’esatto contrario della riforma Bonafede, e che ora, dopo la trattativa contiana, fanno un po’ meno paura e impressione. Ma l’irritazione no, quella c’è ancora in molti eletti, e figurarsi tra la base, che urla di tradimento e sconfitta su ogni social. Però, tanto guida Conte, che di mattina lo giura su La Stampa: “Mai pensato di causare una crisi di governo”. E forse mentre lo diceva aveva le dita incrociate. Di certo pensa a come evitare assenze e voti contrari nel voto previsto a tarda notte, alla Camera.

“Dovremmo tenere” pronosticano e si augurano grillini di vario ordine e grado. Anche perché un no alla fiducia per le regole del M5S varrebbe un’espulsione, disincentivo che l’ex premier è prontissimo ad adoperare, come ha fatto capire nella riunione di domenica con i parlamentari. “Magari qualcuno mancherà…” è la sensazione. Ma le assenze dovrebbero infittirsi oggi, nel voto finale sul testo. Vuoti che farebbero rima con protesta. Più o meno come i 40 assenti che avevano marcato visita domenica, e Conte non aveva affatto gradito. “Però questa riforma è dura da digerire”, buttano lì un paio di parlamentari nella Montecitorio semi-deserta del primo pomeriggio. In cortile, solo con i suoi pensieri, Alessandro Melicchio, deputato calabrese che due giorni fa aveva votato assieme all’opposizione beccandosi la rampogna in assemblea dell’avvocato (“Ci hai mancato di rispetto”).

Poche ore dopo, Melicchio scruta lo smartphone, poi scompare dentro la Camera. Ma ai colleghi ha assicurato che voterà sì. Su una panchina il campano Cosimo Adelizzi, una sigaretta tra le dita e tanto pragmatismo: “Conte ha fatto il massimo e ora dobbiamo sostenerlo tutti, non si può fare diversamente”. Pochi minuti dopo, in jeans e maglietta sotto la giacca, si materializza il presidente della commissione Giustizia, Mario Perantoni, che la battaglia sulla riforma l’ha vissuta emendamento per emendamento. “Io penso che il M5S terrà, abbiamo ottenuto buoni risultati sul testo”. Va bene, ma la base è in rivolta… Perantoni fa una pausa, riconosce: “Dobbiamo spiegare cosa abbiamo fatto, i risultati che abbiamo ottenuto”. In sintesi, l’obiettivo di Alfonso Bonafede, che passa il lunedì a scrivere l’intervento che pronuncerà stamattina nella dichiarazione di voto finale per il M5S. Sarà proprio l’ex Guardasigilli a spiegare perché bisogna deglutire la riforma che cambia, eccome, la sua, quella che doveva fermare la corsa della prescrizione dopo il primo grado.

Sarà lui il primo a pagare dazio all’accordo, a chiedere compattezza e disciplina innanzitutto per Conte. E lo farà con un discorso in cui sosterrà che il Movimento ha inciso, profondamente, sul testo. Teorizzando che la struttura di base resterà sempre quella della sua riforma, della riforma Bonafede. E che bisogna rimanere nel governo Draghi per portare a casa norme e difendere i propri provvedimenti, insomma “per fare la differenza”.

Perché ora per il M5S e Conte così vanno le cose e così devono andare, come cantavano i Csi. Quando i 5Stelle neanche esistevano.