sabato 13/02/2021IL BILANCIO – VINCITORI E VINTI

di Luca De Carolis

Il tecnico che per ora cammina sulle acque ha messo i tecnici dove voleva, cioè in quasi tutti i ruoli chiave, dall’Economia alla Giustizia. Così con le altre poltrone ha appagato la sete di posti dei partiti, con quattro caselle al M5S, tre a Pd, Forza Italia e Lega. Mentre LeU ha confermato Roberto Speranza alla Salute e Italia Viva si è dovuta accontentare di un solo ministero, per giunta senza portafoglio, quasi fosse un’invitata che bisognava tenere a tavola per educazione. Eccolo il governo misto di Mario Draghi, un po’ tecnico un po’ politico. Senza segretari di partito e con meno donne di quanto assicuravano le indiscrezioni molto imprecise, il 35 per cento circa. Inoltre, con gran parte dei nomi del Nord. Un gioco di equilibri dove il Movimento, la forza con più parlamentari ma anche con maggiori guai interni, porta a casa più posti di tutti.

Compensazione alquanto parziale, perché è vero, Luigi Di Maio rimane dove voleva, agli Esteri, mentre Federico D’Incà, vicino al presidente della Camera Roberto Fico, resta ai Rapporti con il Parlamento. Però Stefano Patuanelli deve traslocare dal Mise, finito al numero due della Lega Giancarlo Giorgetti, per accasarsi all’Agricoltura, mentre Fabiana Dadone (anche lei in buoni rapporti con Fico) passa dalla Pubblica amministrazione alle Politiche giovanili. Soprattutto, il M5S deve deglutire tre forzisti nell’esecutivo. Tutti senza portafoglio, ma comunque molto visibili visto che si parla di due berlusconiani doc come Renato Brunetta, che si riprende la Pa come ai tempi del governo Berlusconi, e Mariastella Gelmini agli Affari regionali, mentre Mara Carfagna va al Sud. Basta questo, per provocare la reazione di Alessandro Di Battista: “Ne valeva la pena?”. E certi commenti nelle chat a 5Stelle ieri sera raccontavano il malumore. Però da tenere sulla bilancia ci sarebbe anche il famoso ministero alla Transizione ecologica, tanto invocato da Beppe Grillo. Draghi lo ha affidato Roberto Cingolani, già nella task force di Vittorio Colao e in ottimi rapporti con Matteo Renzi, tanto da aver presenziato alla Leopolda. Eppure è lui il nome che Grillo aveva espressamente richiesto al presidente incaricato. “Non ci è certo ostile” confermano fonti qualificate dal Movimento, che aggiungono: “Tenere Di Maio alla Farnesina e ottenere Cingolani ci è costato un prezzo sull’assetto complessivo, ma noi dovevamo puntare sul tema dell’Ambiente”. E in parte ne risentirà sul leghista Giorgetti che, è vero, si è preso il ministero che voleva, il Mise. Però in parte svuotato di deleghe, che andranno proprio a confluire nel dicastero della Transizione. Assieme a lui altri due reduci del Conte-1, Erika Stefani, che va alla Disabilità e l’ex viceministro all’Economia Massimo Garavaglia, al Turismo. Poi c’è il Pd, forse il partito che può più sorridere. Innanzitutto perché conferma due pesi massimi come Dario Franceschini alla Cultura (visto che il Turismo è andato al Carroccio) e Lorenzo Guerini alla Difesa, poi perché accontenta Andrea Orlando con una poltrona rilevante, il Lavoro. Ossia il ministero che dovrà occuparsi anche del Reddito di cittadinanza. Non solo. Dai dem fanno notare come Enrico Giovannini alle Infrastrutture e ai Trasporti e soprattutto Patrizio Bianchi all’Istruzione siano due nome quasi di area. E poi, insistono, “i ministri che erano l’asse del governo giallorosa sono in gran parte rimasti”.

Certo, come sussurra un parlamentare di peso, “per evitare Matteo Salvini nel governo si è dovuto sacrificare Nicola Zingaretti”. Entrando, il segretario avrebbe giustificato le pretese del leader della Lega. Ma almeno il Pd ha schivato il “capitano”. Proprio come un altro nome ngombrante come Maria Elena Boschi. Del resto per Iv c’è solo Elena Bonetti, che torna al dicastero da cui si era dimessa poche settimane fa, quello alla Famiglia e alle Pari opportunità. Ha pesato, il muro incrociato di Pd, M5S e LeU verso il Matteo Renzi che ha affondato il governo Conte-2. Invece i 5Stelle dovranno farsi andare bene il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Roberto Garofoli, già capo di gabinetto al Mef con Giovanni Tria nel Conte-1. Furono soprattutto loro a spingere Garofoli, già con il dem Padoan all’Economia, alle dimissioni, sostenendo che gli fosse ostile. “Contro di me attacchi sistematici” si lamentò allora Garofoli. Era il dicembre 2018. Un’altra era.

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