domenica 15/11/2020MOVIMENTO

TAVOLI – I 305 COMPATTI: CHIUDERE COL MANAGER MILANESE, CHE DECLINA L’INVITO ALLA KERMESSE. OGGI PROBABILMENTE SARÀ ASSENTE ANCHE GRILLO di  Luca De Carolis e Paola Zanca 

Il capolinea è arrivato. E la fine del legame con la Casaleggio Associati – fondatrice con Gianroberto della “creatura” di Beppe Grillo – è ormai segnata. Da questi Stati Generali il primo a uscirne con le ossa rotte è lui, l’erede Davide, da mesi in crisi con i big del Movimento, per non parlare di quel che pensa di lui il corpaccione dei parlamentari. Così, ieri, nel primo giro di tavoli tematici, si è discusso a lungo del futuro di Rousseau. E non si è trovato uno che fosse uno disposto a difendere il manager milanese. A cui non rimane che una strada, ancora aperta: accettare un contratto di servizio, ma alle condizioni che stabiliranno gli altri. Oppure rifiutare, tanto a Roma fanno già sapere di essere pronti a “internalizzare” la piattaforma, ovvero ad arrangiarsi anche senza di lui. Anche – è questa l’altra novità dirompente – superando il tabù del finanziamento pubblico e accedendo ai fondi del 2 per mille ai partiti.

Che tirasse una brutta aria, s’era capito dal mattino, quando Casaleggio junior – che negli ultimi tempi ha sfoderato una loquacità mai vista prima – ha vergato su Facebook il suo j’accuse: “Ho ricevuto ieri l’invito a partecipare nella discussione di domenica. Ho deciso di declinare perché ritengo che se ci sono delle regole di ingaggio, queste debbano essere rispettate”. Ce l’ha con due aspetti in particolare: il vincolo dei due mandati – difeso da attivisti e assemblee territoriali, ma messo in discussione al primo punto della mozione di maggioranza – e il segreto sulle preferenze ricevute dai 30 oratori prescelti che, come noto, avrebbero dato una prima idea sull’orientamento della base rispetto alla nuova leadership (ne parliamo qui sotto, ndr). Crimi gli ha risposto ricordando che sin dalle “regole d’ingaggio” era previsto che i voti dei candidati fossero resi noti “dopo l’elezione dell’organo di direzione M5S”.

Ma ormai la rottura è consumata. Perché il punto non sono né le preferenze, né i due mandati. Ma il sospetto, ormai diffuso ad ogni livello, che sia stato Casaleggio a non essere trasparente, su due questioni rilevanti: i soldi e le votazioni su Rousseau. È la sintesi, un po’ brutale, della discussione che ha animato i tavoli di ieri, in cui si è parlato di “necessità di maggiore trasparenza nelle gestione delle risorse” (i famosi 300 euro che ogni eletto deve versare ogni mese) e del “miglioramento del rapporto tra iscritti e attivisti”. E qui la traduzione necessita di qualche riga in più, perché nella testa dei delegati M5S s’è fatta strada la consapevolezza che tra i 150mila aventi diritto di voto su Rousseau ci sia finito un po’ di tutto e che gli esiti delle consultazioni non possano essere affidati a questa mole di persone di cui non si conosce l’impegno nel M5S. Si immagina, quindi, di restringere la platea degli aventi diritto a quegli iscritti che davvero partecipano alla vita del partito. E per i quali, insistono, servono sedi fisiche dove incontrarsi sul territorio.

La decisione su come proseguire (contratto di servizio o piattaforma interna) non è ancora stata presa. Nel dubbio Casaleggio ieri ha fatto girare sul web delle slide in cui dimostrerebbe che la sua gestione ha fatto spendere solo 1 miliardo e 300mila euro l’anno (a tanto ammonterebbe la sua proposta economica in caso di appalto), mentre altri partiti – la Lega su tutti, ma anche il Pd – hanno i conti in rosso. Saluta da lontano i delegati, citando un ingegnere giapponese, Kaoru Ishikawa, che pare fosse solito dire: “Fate in modo che diventi un’abitudine discutere i problemi basandosi sui dati e rispettando i fatti che essi dimostrano”.

Ma quello di Rousseau non è l’unico nodo di cui si è dibattuto ieri. Nei circa 30 tavoli (10 per ognuna delle aree “Organizzazione”, “Regole e principi”, “Agenda politica”) il tema dei due mandati è rimasto tutto sommato in secondo piano, anche per non concedere un varco mediatico a Casaleggio e Di Battista, contrarissimi a toccarlo. Si è parlato di “valorizzare” le esperienze degli eletti in scadenza, magari nelle elezioni comunali o attraverso consulenze in Parlamento, ma la discussione di fatto è stata rinviata. Lo stesso vale per le alleanze: l’orientamento generale non crede nel rapporto organico con il Pd ma ragiona su “coalizioni” alle elezioni locali, se l’input arriva dal territorio. Poi resta il grande buco dell’identità, della crisi in cui si è precipitati in questi anni e di cui “qualcuno dovrà assumersi la responsabilità”. La squadra di governo finisce sotto esame e la promozione piena arriva solo per i ministri Bonafede e Dadone (ovvero piacciono le cose fatte in materia di giustizia e pubblica amministrazione), mentre sul resto nessuno si spertica in lodi particolari. Anzi: si discute parecchio di come garantire l’impermeabilità dei portavoce alle pressioni esterne (sono freschi della lettura delle intercettazioni sul caso Autostrade in cui sono finiti anche il ministro Patuanelli e la senatrice Lupo). Come al solito dicono che bisogna ripartire dai temi. E nella lista ci sono la lotta all’evasione, un miglior funzionamento del reddito di cittadinanza, un piano di transizione ecologica e, alla luce della pandemia, una riforma del Titolo V, quello che regola i poteri delle Regioni. Oggi però parlano i “big”, anche se – salvo ripensamenti dell’ultima ora – tra loro non ci sarà Beppe Grillo. Tutto quello che si è detto prima, l’esperienza insegna, rischia di fare la fine della sabbia al vento.

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