martedì 07/04/2020

CONTRO – FILIPPOMARIA PONTANI

La didattica a distanza sta richiedendo agli insegnanti italiani un supplemento enorme di fatica: correggere elaborati e realizzare PowerPoint a ciclo continuo; destreggiarsi tra piattaforme diverse; inventare interrogazioni astute; non far scomparire gli allievi più “difficili”; inventarsi la valutazione in assenza di una direttiva nazionale (che il decreto, araldo di future ordinanze, nuovamente rinvia). Ben pochi tra i docenti e gli allievi (quelli che hanno a disposizione un device tutto per sé: i meno agiati sono fuori) pensano che tali metodi portino giovamento rispetto alla didattica tradizionale, sia nella trasmissione delle conoscenze sia nella delicata promozione di un sapere critico.

Questa didattica va considerata una (necessaria) parentesi, non il futuro. Preoccupa sentire che alcuni (per esempio la Fondazione Agnelli) vedono l’occasione di imporre a tutti i docenti una formazione continua sulle tecnologie digitali: si configurerebbe – una volta di più – il prevalere del “contenitore” sul “contenuto”, un nuovo picco della stessa pedagogite acuta che ha contagiato da anni la scuola pubblica, obbligando gli insegnanti a dedicare tempo prezioso non già all’aggiornamento o alla riflessione sulle loro materie, bensì al mortificante verbiage di “formatori”, che sembra banale ma è spesso pericoloso (imparare l’italiano con le “app” è un modo sicuro perché s’ignori la grammatica di base). Parole sagge sul tema si leggono in un libro recente di Marco Gui, “Il digitale a scuola. Rivoluzione o abbaglio?” (Il Mulino 2019). Le risorse per la scuola non sono (mai state) infinite, non ha senso spenderle nel potenziamento di tecnologie peraltro destinate a una rapida obsolescenza; semmai, in una ben concepita piattaforma unica di teledidattica su software libero, evitando di dare dati in pasto a Google o Microsoft.

Nell’emergenza, il governo stipula protocolli con varie aziende (da Flipnet a Talent), ma resiste per ora a chi cerca di vendere i metodi di istituti privati (test Invalsi o altri) come surrogati della valutazione ad personam che solo gli insostituibili docenti possono sensatamente formulare. Si affida a un esame di maturità ridotto all’osso, a distanza e dunque necessariamente orale, in cui sarà però essenziale garantire – per dar un minimo di dignità – un tempo lungo per ogni candidato e un ruolo non meramente notarile del Presidente esterno. Grave però un errore: escludere la bocciatura per i non-maturandi (foss’anche nel previsto “recupero” di settembre, per il quale è comunque da augurarsi si stanzino risorse adeguate) rassicura forse i genitori, ma dà un messaggio demotivante sia agli studenti nel faticoso impegno di studio a distanza, sia ai docenti che penseranno di fare pura accademia; di più, farà sì che allievi ancora fragili debbano affrontare l’anno prossimo un vero calvario.

* professore universitario

© 2020 Editoriale il Fatto S.p.A. C.F. e P.IVA 10460121006