(Roberta Labonia) – E sempre della serie “severamagiusta” , non posso che plaudire, col senno di poi, alla lungimiranza di Michele Emiliano, l’attuale Presidente della Regione Puglia ed ex piddino pentito, quando disse, in tempi non sospetti, che la ArcelorMittal “veniva a Taranto sostanzialmente per chiudere l’azienda perché era monopolista del mercato”. Ci aveva visto lungo il magistrato pugliese prestato alla politica, uno che Matteo Renzi e l’ex ministro Carlo Calenda non lo reggevano proprio e che per certi aspetti, a suo tempo, ho definito “un grillino a sua insaputa”.

Questa qui sotto che leggete è la nota che Emiliano inviò a Luigi Di Maio appena insediatosi, subentrando a Calenda a luglio del 2018, al Ministero dello Sviluppo Economico, dove lo metteva al corrente dei passaggi, a suo avviso poco trasparenti, attraverso cui l’indiana Mittal si era aggiudicata la gara europea, una gara tutta incentrata, da Calenda&Co, sull’offerta economica, dove la qualità del piano ambientale ed industriale nulla avrebbero potuto contro un offerta generosa. Insomma una gara dove il vil denaro avrebbe avuto un peso maggiore rispetto ad un piano industriale sostenibile e un piano ambientale serio e non lesivo della salute dei lavoratori e di Taranto tutta.

Ripercorrendo tutti i passaggi, ci si rende conto, ahimè a posteriori, che Calenda mise ottusamente in mano il colosso Ilva ad un gruppo di rapaci monopolisti stranieri, tanto da essere stati oggetto di severe misure da parte dell’Antitrust UE, prima di poter subentrare alla gestione commissariale che aveva in carico Ilva. L’ex ministro Calenda (sempre e volutamente con la “m” minuscola), ha aggiudicato la gara ad Arcelor Mittal sulla scorta di un offerta di 600 mila euro più vantaggiosa (un’inezia se paragonata al costo miliardario dell’investimento), disdegnando un piano industriale sostenibile e, ciò che più rileva, un piano di decarbonizzazione degli impianti innovativo, basato sull’utilizzo di tecnologie all’avanguardia, che l’altra cordata Acciaitalia, formata da Jindal (altro leader indiano dell’acciaio) ma con dentro a maggioranza Arvedi, Del Vecchio e Cassa Depositi e Prestiti (quindi lo Stato italiano), gli stava offrendo su un piatto d’argento. Torno a sottolineare un piano ambientale che si sarebbe chiuso con ben 2 anni d’anticipo rispetto a quello presentato da Mittal, che aveva scadenza nel 2023. E a nulla sono valsi i ricorsi al Tar promossi da Michele Emiliano, congiuntamente al Sindaco di Taranto, fra il 2017 e il 2018 contro ArcelorMittal e il Mise, tutti respinti. Il Mise era titolato a non rendere pubblico il piano industriale di Mittal che più volte gli era stato negato di visionare, e a sua volta Mittal, sarebbe stata salvaguardata, in continuità con la gestione commissariale, con uno scudo penale fino al compimento del suo piano ambientale,cioè fino al 2023. Nel frattempo gli operai e i tarantini del quartiere Tamburi avrebbero continuato a respirare le salubri polveri di diossina. Nel lasso di tempo intercorso fra gestione Commissariale e quella Mittal si sono contati ben 5 morti per incidenti negli impianti. Amen.

In questa situazione Luigi Di Maio, subentrato in corsa, altro non poté fare che chiedere all’Anac di Cantone di verificare l’iter di gara seguito dal Mise e l’Anac ha confermato, nella sostanza, i vizi di forma denunciati da Emiliano, vizi che però non hanno consentito, sentita l’Avvocatura di Stato, di dichiarare nulla la gara. A lui va comunque il merito, purtroppo effimero visti i fatti recenti, di aver convinto gli indiani, nel settembre del 2018, a sottoscrivere un patto con i sindacati che li impegnava a mantenere in forza tutti e 10.500 lavoratori in luogo degli 8.000 annunciati insieme ad un piano esuberi.

Ed altri aspetti poco chiari del procedimento di gara stanno emergendo dalle carte. Ce lo ha dettagliato l’altro ieri, in modo puntuale ed oggettivo, l’attuale Ministro del Mise Patuanelli andando a riferire alle Camere. Fra tante cifre, date e attori di tutto l’ambaradam, è emerso che il Mise, cioè Calenda, non volle prendere in considerazione, aggrappandosi ad un debole quanto contraddittorio parere dell’Avvocatura di Stato, il rilancio fatto sull’offerta economica e sul piano dipendenti dalla cordata Acciaitalia. Rilancio che, ove accolto, avrebbe posto Jindal e del Vecchio (CDP e Arvedi nel frattempo si erano chiamati fuori), in pole position rispetto agli indiani Mittal.
Ne’ infine, ce lo testimonia il Fatto Quotidiano in questi giorni venuto in possesso dei carteggi, è valso agli occhi di Carlo Calenda, il parere dei Commissari uscenti che, letto il piano industriale di ArcelorMittal, sempre nel 2017, lo bollarono come “incoerente” e destinato al fallimento. Cosa che puntualmente è avvenuta, se è vero come è vero che i risultati economici conseguiti da Ilva sotto commissariamento sono stati migliori (ovvero meno peggiori), di quanto sia riuscito a fare, dopo il primo anno, il colosso indiano.

Il resto è storia di questi giorni, in queste ore, in modo ridondante e ottuso, media ed opposizioni si stanno dando un gran da fare per mantenere la tesi che la crisi ex Ilva è scaturita dall’affair scudo fiscale, che quei pasdaran dei grillini si son dati un gran da fare per annullare, non essendo prevista dal contratto. Ma più le ore passano più la verità, impietosa, sta venendo a galla. ArcelorMittal ha gabbato o, almeno, sta tentando di gabbare lo Stato italiano, non tenendo fede agli impegni assunti nell’ambito di una gara europea ad evidenza pubblica. Sta cambiando le carte in tavola, vuole l’assenso al taglio della produzione e di 5.000 dipendenti. Un disastro annunciato per chi avesse avuto l’onestà di riconoscerlo fin da subito.

Oggi, forte dell’onestà del suo operato, il presidente Giuseppe Conte ci ha messo la faccia ed è andato a Taranto, in mezzo agli operai esasperati in sciopero e non ha promesso miracoli, umilmente ha dichiarato di non avere soluzioni in tasca.

È stato lui,oggi, e prima ancora, Di Maio nel 2018, ad affrontare le associazioni di cittadini e i rappresentanti degli operai di Taranto e a cercare di mettere una toppa ai danni da altri creati. Coloro che i danni li avevano creati, invece, non si sono visti.

Questa storia, ancora una volta, ci conferma che non c’è più cieco di chi non vuol vedere e più sordo di chi non vuol sentire. La vicenda Ilva, alla prova del tempo e dei fatti, si è rivelata un’altra delle tante “patacche” (vedi anche Mose, concessioni Autostradali e Tav, tanto per citarne di recenti), che ci hanno rifilato, a noi italiani, quelli “capaci”.