Il capo del M5S: “O passano i nostri punti di programma o meglio le urne”. I 5Stelle si agitano, i democratici e il premier s’arrabbiano, il Colle s’infuria.

(di Luca De Carolis e Fabrizio D’Esposito – Il Fatto Quotidiano) – Luigi Di Maio ha due problemi. Uno è riuscire a fare il vicepremier, e su questo non sente ragioni o piani B; l’altro è tenere unito il Movimento, che ha la base squassata dal probabile abbraccio di governo con il Pd. E non è un dettaglio, visto che è alle porte il voto sull’accordo sulla piattaforma web Rousseau. Così appena incontrato per le consultazioni Giuseppe Conte, “il presidente super partes” come lo definisce con strategico distacco, nel primo pomeriggio Di Maio si manifesta davanti ai microfoni a Montecitorio e detta le condizioni, a tutti: “Se i nostri punti entreranno nel programma di governo bene, altrimenti meglio il voto, e il prima possibile, non è nei nostri valori vivacchiare”. E il segretario del Pd Nicola Zingaretti la prende male, tanto che annulla l’incontro fissato per le 15 con il vicepremier.

Invece il Quirinale la prende peggio, e in serata fa trapelare tutta la sua ira contro Di Maio. Ma non finisce mica qui, perché anche i gruppi parlamentari, già agitati, sospettano e protestano per varie vie, e ai generali del M5S tocca giurare che il capo politico non vuole far saltare il banco, “è solo strategia per portare a casa i nostri temi” come assicura il capo ai maggiorenti che lo chiamano per capire. Però il venerdì della trattativa si increspa, al punto che il Colle fa sapere a Conte che per mercoledì dovrà aver finito i compiti, cioè salire al Quirinale con la lista dei ministri e un programma condiviso tra dem e 5Stelle. Altrimenti il presidente della Repubblica Sergio Mattarella suonerà la campanella, e tutti a casa, cioè al voto.

E sarebbe il finale che ormai non vuole più nessuno, neppure lo stesso Di Maio, che in serata rallenta: “Non è questione di ultimatum, è che siamo stanchi di sentire parlare tutti i giorni di poltrone e toto-ministri”. E a guidarlo è sempre la paura del voto su Rousseau, l’ordalia a cui non può sottrarsi. Per questo bisogna mostrare agli iscritti che il M5S si unirà al Pd per portare avanti i propri punti di programma, le proprie battaglie. È quanto continua a chiedere soprattutto Alessandro Di Battista, il più scettico sull’accordo. L’ex deputato romano lo ha detto dritto a chi lo ha sentito in queste ore: “Dobbiamo alzare la posta, tanto il Pd accoglierà le nostre richieste, perché soprattutto i renziani hanno troppa paura del voto”. Però si cammina su una lastra di ghiaccio. Anche perché Di Maio continua a litigare su quella poltrona di vicepremier che pretende per contare e marcare anche Conte, troppo autonomo. E non importa che il Pd faccia notare che il premier lo hanno indicato i 5Stelle, e che offra in cambio la casella del sottosegretario. “Il presidente è super partes” insiste Di Maio, cioè va considerato terzo. Ergo, lui deve essere vice e ministro (al Lavoro più che alla Difesa, stando all’ultimo bollettino). Però il messaggio di giornata sono i temi, per carità. “Al presidente Conte abbiamo espresso sconcerto per questo surreale dibattito sugli incarichi” giura il capo.

Così elenca i punti “imprescindibili” per il Movimento: dal blocco a inceneritori e trivelle, per andare alla revoca delle concessioni autostradali ai Benetton e alla legge sul conflitto di interesse, per arrivare al taglio dei parlamentari, “da calendarizzare subito a settembre alla riapertura dei lavori” precisa Di Maio. Il vicepremier giura di “non rinnegare nulla” dei 14 mesi con la Lega, anzi rivendica “con orgoglio” il lavoro del governo gialloverde. E per ribadirlo fa muro sui decreti Sicurezza: “Non ha alcun senso parlare di modifiche ai decreti sicurezza. Vanno tenute in considerazione le osservazioni del capo dello Stato ma senza modificare la ratio di quei provvedimenti”. Passa qualche nanosecondo, e dal Pd parte la batteria di comunicati contro Di Maio.

Ma la temperatura sale anche nel M5S. “I parlamentari non si tengono” soffia un ministro. E soprattutto dal Colle arrivano segnali di furia. Così il Movimento comincia a fare passi all’indietro, con varie correzioni (“nessun ultimatum”). Fino a quando in serata i due capigruppo Stefano Patuanelli e Francesco D’Uva provano a riparare: “Sul decreto sicurezza stiamo dicendo tutti la stessa cosa: ci sono dei rilievi fatti dal capo dello Stato, bisogna tenerne conto”. Ma poco prima, dentro Palazzo Chigi, la riunione dei due capigruppo con Conte e i big del Pd Franceschini e Orlando era stata una corrida. Con il premier che ha faticato per contenere il nervosismo e le accuse incrociate tra dem e grillini. “Il Pd ha mandato due persone che non erano delegate a parlare di temi” morde il Movimento. Però pesa soprattutto il malumore di Conte. Davanti ai partiti non ha commentato l’intervento di Di Maio. Ma raccontano che abbia bollato come “non utili” le parole del capo del M5S. Anche perché poi ha dovuto correggere, è il ragionamento del premier: che deve sempre risolvere quella grana, i vicepremier. Per Conte sarebbe meglio non averne. Ma i partiti chiedono, esigono quelle poltrone: mica i temi.