LA CASTA 

ZANDA ATTACK – IL TESORIERE DEM PROPONE UNA TORTA DI 90 MILIONI A LEGISLATURA ED È PRONTO A INCONTRARE LE ALTRE FORZE PER AZZERARE LA RIFORMA LETTA DEL 2014

A volte ritornano. Sopravvissuto a tre referendum, due Repubbliche e infiniti scandali, il finanziamento pubblico ai partiti sembrava esser stato eliminato una volta per tutte dal governo Letta, anno 2014. Adesso però – vuoi la crisi, vuoi la recente stretta sulla trasparenza voluta da Alfonso Bonafede – qualcosa potrebbe cambiare, tanto che il nuovo tesoriere del Pd Luigi Zanda ha confermato a Repubblica di voler incontrare gli altri partiti per proporre un ritorno all’antica. Non certo alle vacche grasse berlusconiane, ma quanto basta per dare una gonfiatina a bilanci sempre più in rosso e costretti a dipendere dalla “tassa” imposta agli eletti.

Zanda partirà da un testo presentato l’estate scorsa in Senato che prevede un tesoretto di 90 milioni a legislatura (18 all’anno) da dividere: un 10 per cento andrebbe in parti uguali a tutte le forze politiche presenti in Parlamento, il resto sarebbe distribuito in base al numero di eletti. Sempre tenendo conto, giura Zanda, delle “spese annue rimborsabili”. Tradotto: le forze politiche dovrebbero comunque presentare le ricevute dei costi sostenuti.

L’ipotesi è ancora tutta da realizzare, ma già da adesso il mantra del nuovo Pd sembra un déjà vu di proposte già viste in passato. Da quando è diventato impossibile parlare di finanziamento pubblico, infatti, i soldi ai partiti sono rientrati dalla finestra sotto il nome di “rimborsi”, salvo poi essere del tutto svincolati – guarda caso: sempre in eccesso – rispetto alle reali spese per fare campagna elettorale. Si è andati avanti così fin dal 1993, quando un referendum promosso dal Partito Radicale è riuscito dove nel 1978 aveva fallito, profittando dell’indignazione generale causata da Mani Pulite per abolire la legge Piccoli del 1974, quella che per prima aveva istituito i finanziamenti pubblici in Italia.

Ma fatto il referendum, trovato l’inganno: già dalle Politiche del 1994 i partiti poterono contare su rimborsi sempre più allargati, vista la generosità bipartisan delle nuove norme varate da centrosinistra (1999) e centrodestra (2002), in grado anche di eludere – forti del quorum – una nuova consultazione abrogativa promossa dai Radicali nel 2000.

Il capolavoro del finanziamento a pioggia è però datato 2006: un articolo ad hoc del solito Milleproroghe aveva modificato la modalità di erogazione dei fondi, che diventavano dovuti per tutti i cinque anni della legislatura a prescindere dalla sua effettiva durata. Morale: dopo due anni il governo Prodi crolla, si torna a votare ma i partiti percepiscono il doppio dei fondi, perché a quelli della nuova legislatura (2008-2013) si sommano quelli della precedente. Una cuccagna proseguita sena remore sino al 2010, quando la politica si poté permettere di eliminare il doppio finanziamento anche in virtù di bilanci più che sorridenti: per le elezioni del 2008 il Pdl aveva incassato 206 milioni, il Pd 180 e la Lega 41. Cifre che oggi appaiono fuori dal tempo – Zanda, appunto, ragiona su 90 milioni complessivi – e che già avevano imposto una revisione ai governi Monti e Letta, assediati dallo spread, dai venti anti-casta e dalle esigenze di spending review. La crisi di risorse che toglie il sonno a Zanda è figlia proprio della riforma lettiana, per cui dal 2014 al 2017 i finanziamenti sono stati progressivamente aboliti, questa volta per davvero. I partiti hanno così potuto finanziarsi soltanto attraverso il 2 per mille volontario dei cittadini (insufficiente: 14 milioni in totale, di cui 7 al Pd secondo i dati del 2018) o per mezzo di donazioni private fino a 100mila euro, consentite però in forma anonima prima dell’intervento della Spazzacorrotti.

L’intervento di Letta ha però anche lasciato spazio a zone grigie, perché non ha incluso nelle norme la galassia di associazioni e fondazioni legate ai partiti e che per conto dei partiti hanno finanziato eventi, incontri, campagna elettorale. È il caso delle varie Più Voci (Lega) e Eyu (Pd), i cui nomi sono per altro comparsi, assieme a quelli dei tesorieri dei due partiti, nelle recenti vicende giudiziarie del costruttore Luca Parnasi, perché sospettate di aver ricevuto finanziamenti illeciti. Ma la lista è lunga: dall’Associazione Rousseau alla renziana Open, che ha pagato parte della campagna referendaria per il Sì nel 2016, o ancora la A/simmetrie del leghista Alberto Bagnai. Una commistione cui ha provato a dare regole il ddl Anticorruzione, che ha equiparato le fondazioni ai partiti con il desiderio di inchiodarle agli stessi obblighi di trasparenza. Senza convincere, evidentemente, il tesoriere Zanda.

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