Di Marcello Sorgi La Stampa

Nell’ora più difficile del governo gialloverde, col rischio conclamato di una crisi sulla Tav, Di Maio e Salvini si scoprono soli. Tra loro nulla è cambiato, la lealtà e quella specie di amicizia che è venuta costruendosi in questi mesi tra i due, aiutandoli a salvarsi in tanti momenti difficili, ora serve soltanto a dirsi con franchezza che è quasi impossibile trovare una via d’uscita. Perché un «sì» è un «sì» e un «no» è un «no», e nessuna delle ipotesi di rinvio messe a punto dai tecnici, per approfondire gli aspetti più controversi del progetto per la Torino-Lione, consente di aggirare la questione delle questioni: si fa o non si fa la Tav? Per Di Maio, che pure qualche volta s’era fatto scappare che avrebbe trovato il modo di far digerire ai suoi anche il boccone più indigesto – come aveva fatto per Ilva, Tap, decreto sicurezza, autorizzazione a procedere negata per Salvini e altre scelte inevitabili per il governo e inaccettabili per il Movimento -, questa della Tav è una sorta di prova d’amore.

Una prova d’amore chiesta da una base disorientata dalle sconfitte elettorali in Abruzzo e Sardegna e convinta che, se non si dà subito una sterzata, anche in Basilicata andrà male e potrebbe finire peggio alle Europee di maggio. Lo ha detto Davide Casaleggio, lo ha ripetuto Beppe Grillo: mollare sul «no» alla Tav è impossibile, ma i 5 Stelle, pur mettendola in conto, dicono di non volere la crisi. Sottinteso: Salvini abbozzi; se invece non può o non vuole, si accomodi.

Gli ultimi campanelli d’allarme per il capo politico del Movimento sono state le dimissioni, poi Chi stacca
la spina per primo rientrate, del ministro delle Infrastrutture Toninelli, i 27 voti mancanti dei deputati 5 Stelle all’approvazione della legittima difesa alla Camera, il silenzio minaccioso di Di Battista, che senza il blocco della Tav non parteciperà alla prossima campagna elettorale, e poi il rumore di fondo che sale dai gruppi parlamentari, pronti a dare un segnale al Senato, dov’è più facile far mancare la maggioranza. Così anche l’ultima mediazione di Conte è fallita. E d’altra parte, chiedere a Francia e Ue di rinegoziare i termini economici della questione, bloccare i bandi degli appalti, senza confermare preventivamente che il progetto va avanti, vuol dire seppellirlo. Dopo giorni e notti di negoziati «tecnici», faticosi quanto inutili, anche il premier ha dovuto arrendersi, dichiarandosi «non convinto» della realizzazione dell’opera e schierandosi sulla trincea pentastellata.

L’onere della rottura (o di una improbabile, a sentire coloro che gli son vicini, sottomissione al diktat dei 5 Stelle) adesso è sulle spalle di Salvini. Ma contrariamente a quanto appare dal suo stile di comunicazione e dalla presenza sui social, il leader della Lega sa essere prudente. Sulla sua agenda, il rischio della fine dell’alleanza gialloverde, non è che non ci fosse, ma doveva essere calcolato, e soprattutto arrivare dopo le elezioni europee, che Salvini considera l’occasione per consolidare nelle urne, e non solo nei sondaggi, la crescita della Lega fino al ruolo di primo partito, anche a scapito dei pentastellati. A quel punto, il Capitano avrebbe affrontato con più tranquillità anche l’ipotesi di una crisi, che molto probabilmente avrebbe determinato la fine della legislatura, riportando il Paese a elezioni. L’accelerata di Di Maio invece lo costringe a decidere oggi. E il contesto lo spinge verso la rottura. Per questo ha detto in tv ieri sera che «ha la testa dura» e andrà «fino in fondo». Salvini è consapevole che la rinuncia alla Tav, oltre a cagionare un elevato danno economico al Paese, avrebbe un valore negativo simbolico per la maggior parte degli elettori del Nord, non solo per imprenditori che da mesi hanno fatto capire come la pensano: basti pensare alle manifestazioni di Torino da cui è partita la rivolta contro il «no» alla ferrovia veloce. E soprattutto in Piemonte, dove si vota per la Regione, potrebbe creare uno spostamento di opinione pubblica verso Zingaretti e Chiamparino, gli unici rimasti a difendere l’Alta velocità senza se e senza ma. È con questi pensieri che il leader del Carroccio s’è infilato nella sua notte più lunga.