
Mattia Feltri
Il centrodestra c’è ma non si vede: bello anche questo paradosso nella stagione dei paradossi. Da un anno e mezzo dove passano a braccetto i vecchi comari di Forza Italia e Lega, più il rifacimento ruspante di An, i F.lli d’Italia, non resta pietra su pietra. Novembre 2017, Sicilia, Nello Musumeci vince col quaranta per cento; marzo 2018, Lombardia, Attilio Fontana vince col quarantanove; aprile 2018, Molise, Donato Toma vince col quarantatré; una settimana dopo, Friuli, Massimiliano Fedriga vince col cinquantasette; febbraio 2019, Abruzzo, Marco Marsilio vince col quarantotto.
E infine la Sardegna, di nuovo intorno al cinquanta. Se la politica fosse un ramo della logica, perlomeno della logica più spiccia, Matteo Salvini dovrebbe mandare all’aria la scappatella coi Cinque Stelle e ritornare a casa, dove lo aspettano con festoni e trombette sventolando sondaggi che gli attribuiscono la più solida maggioranza parlamentare e un governo più congruente. Purtroppo, però – purtroppo per Silvio Berlusconi – a Salvini della congruenza del governo importa poco. Detta in maniera un po’ dozzinale: quando gli ricapita un alleato del genere, di inettitudine politica da podio olimpico, da otto mesi impegnato a demolire sé e a rifornire il socio? Per esempio: ora Luigi Di Maio, commentando il passaggio in Sardegna dal quarantadue per cento delle elezioni politiche al dieci delle Regionali, dice, attingendo alla saggezza popolare, che non si possono paragonare le pere con le mele, e sarà anche vero, ma otto mesi fa aveva pur sempre quarantadue pere, adesso ha dieci mele. Bene: a Salvini quando ne ricapita uno così? La Lega, lo scorso marzo, in Sardegna aveva preso il dieci insieme col Partito sardo d’azione, ora il dodici da sola. La pacchia, insomma, non è finita.
Né bisogna trascurare che da venticinque anni abbondanti qualsiasi leader politico di destra, di sinistra e di centro, piccolo, medio o grande, ha speso le migliori energie nel tentativo di liberarsi di Berlusconi. A destra ci hanno provato tutti: Umberto Bossi, Gianfranco Fini e pure Pier Ferdinando Casini. Senza riuscirci. Ma ognuno gli ha levato qualcosa. E ora che il sire è consunto e marginale, Salvini non ha nessuna intenzione di rimetterlo sul palco a fare la vedette. Immaginate un esecutivo in cui Berlusconi pretendesse e spuntasse per sé il ministero dell’Economia o degli Esteri, immaginatelo tre giorni alla settimana a Bruxelles sottobraccio a Emmanuel Macron e Angela Merkel, a spiegare al mondo come va il mondo - sarà anche anziano, ma mica è Di Maio. Immaginate i colonnelli leghisti, abituati a trattare via Facebook con Laura Castelli, o via WhatsApp con Danilo Toninelli, costretti al tavolo di concertazione con Renato Brunetta e Antonio Tajani, che sono un po’ più impegnativi, e dunque scoccianti. Immaginate l’uomo della felpa e della giacca dei pompieri, con le sue pizze alle cipolle e i suoi maritozzi alla Nutella, così quotidianamente inseguito nelle sue mattane, obbligato a inseguire quelle del pirotecnico di Arcore.
E fin qui tutto torna. Ma il problema di Salvini – chissà se l’ha presente – è che la pacchia non durerà in eterno, e prima o poi la cambiale va incassata. Qui il vento cambia alla svelta, gli elettori italiani sono volubili. Adesso abbandonano i Cinque Stelle, ma domani? Magari non gli basterà più vedere i barconi di migranti lasciati in rada. Magari si scocceranno di Salvini proprio perché si sono scocciati di Di Maio. Magari faranno notare che il famoso, irrinunciabile territorio un’idea di governo per il Paese ce l’ha, l’ha espressa in Sicilia, in Lombardia, in Friuli, nel Molise, in Abruzzo, in Sardegna: è un’idea di governo senza Di Maio e con Berlusconi. Come si vede, qualche volta vincere è un guaio.
