
Sotto gli spasmi esistenziali del M5S, tra ritrovate voci di scissioni e infinite autoanalisi, si annuncia sempre più rumorosa la rivolta dei parlamentari costretti a versare 300 euro al mese all’Associazione Rousseau in mano a Davide Casaleggio. Sullo fondo, una distanza si scava tra il rampollo del fondatore e il capo politico del M5S, obbligati a firmare tra di loro una fragile tregua, per difendersi e rafforzarsi a vicenda. Uno vuole mantenere l’utopia digitale del Movimento, con le sue regole, l’altro vuole un partito vero e proprio, e cambiare quelle regole, a partire dal divieto di fare alleanze e di andare oltre i due mandati.
Ma per capire di cosa stiamo parlando, bisogna tornare indietro di due mesi. È il 14 dicembre. Al Tempio di Adriano di Roma gli uomini dello staff del M5S raccolgono uno sfogo di Davide Casaleggio: «Non è accettabile che su oltre 300 parlamentari ne siano venuti una trentina». È in corso un incontro per discutere dell’uso della piattaforma Rousseau. L’imprenditore si trova di fronte una sala vuota. L’episodio non è noto, perché l’evento era riservato solo agli eletti, che però lo disertano.
In quei giorni la pattuglia del M5S in Parlamento è già gonfia di malumore. La maggior parte degli eletti mormora di non capire perché dare 300 euro ogni mese a Rousseau, dunque a Casaleggio Jr, senza sapere dove finiscono i soldi, senza vedere risultati concreti sulla piattaforma che continua ad andare in tilt. Poche leggi su cui interagire con gli attivisti, nessuna votazione. Le diverse funzioni del sistema operativo – Lex, activism, e-learning, e-sharing – ridotte a puri orpelli. Il M5S concentrato a governare e Casaleggio alle prese con la ribalta imprenditoriale, i tour di Rousseau, l’Academy, gli open day, i convegni. È già allora che i capigruppo di Senato e Camera, Stefano Patuanelli e Francesco D’Uva riportano a Di Maio lo stato delle cose: «I parlamentari si lamentano. Chiedono: “Chi è Casaleggio?”, “Perché dobbiamo sottostare a uno che non è stato eletto ed è lì solo perché è il figlio di?”». Di Maio ascolta, e pensa. Il padre, Gianroberto, fondatore assieme a Beppe Grillo, aveva un ruolo politico, era uno stratega. L’erede invece si è ritrovato catapultato in un incarico che in realtà va oltre i suoi interessi e i suoi poteri. Lui si occupa di business e di tecnologie. Restano però nelle sue mani le leve legali ed economiche. Rousseau è anche il cuore di un groviglio societario e politico che controlla il M5S, il simbolo, i diritti, i dati, la sua cassaforte. E soprattutto: statuto e regolamenti.
Di Maio sa che comunque questo è il momento adatto. Casaleggio è indebolito dalle critiche, che il leader silenziosamente asseconda, e sa bene che arriverà il momento in cui si potrà tornare a discutere di cambiare i rigidi dogmi del Movimento. Quel momento è oggi, dopo la sconfitta in Abruzzo e dopo l’ennesimo crac di Rousseau durante le votazioni sul salvacondotto a Matteo Salvini. Il 31 dicembre La Stampa anticipa l’intenzione di voler creare deroghe alla regola dei due mandanti. È una parte della discussione generale che i vertici M5S stanno affrontando già a dicembre e che emergerà in questi giorni. Casaleggio è contrario. Grillo più favorevole, sia alle alleanze, sia a rivedere il vincolo del doppio mandato. Al Teatro Brancaccio, il comico ha detto: «Basta con gli scontrini, ora facciamo politica». Un modo per dare una mano a Di Maio dopo averlo sferzato con battute velenose sul caso Diciotti.
Il capo politico ha bisogno di un alleato, anche per raffreddare i diversi fronti di ribellione che si sono aperti dopo l’Abruzzo e il Salva-Salvini. Ai movimentisti che disconoscono la sua leadership può rispondere solo rendendo più strutturato il partito. Ma, anche accontentandoli sulla partecipazione. Ed è in questa stessa dialettica che nasce lo scambio implicito con Casaleggio Jr. Blindarsi a vicenda con un patto: Di Maio spinge per avere più votazioni online su Rousseau dando un senso alla piattaforma e ai soldi dei parlamentari, ma vuole l’ok per cambiare regole e statuto del M5S. [I. Lomb.]
